Friday, December 22, 2006

Buone Feste... nonostante il parere del generale

Questo blog sospende, per il momento, la sua attività. Faccio i miei auguri di buon Natale e di sereno 2007 a tutti coloro che, abitualmente o per caso, si affacciano da queste parti.

Concludo con un ricordo. Tempo fa, un generale mi disse che, a suo parere, l’augurio più opportuno per l’arrivo dell’anno nuovo avrebbe dovuto essere: “Avvenga tutto ciò che ci si merita!”. Pronunciate queste parole, il generale abbozzò uno strano sorriso.

Hoka Hey

Thursday, December 21, 2006

Benny Morris, il secondo Olocausto e l'inerzia di Israele

Me ne rendo conto, non è proprio nello spirito del Natale scrivere un post in cui si descrive e si commenta una visione apocalittica riguardante i nostri fratelli ebrei. Penso però che sia doveroso farlo, se ho capito qualcosa di Israele e del suo popolo.

Ieri, sulle pagine del Corriere della Sera, è comparso un lungo articolo a firma di Benny Morris, storico israeliano, intitolato “L’incubo del giorno del secondo Olocausto”. Morris tratteggia uno scenario che vede protagonisti il delirante estremismo religioso di Mahmoud Ahmadinejad e dei suoi accoliti, il debole governo di Israele, nonché la comunità internazionale, incapace di fermare la corsa nucleare iraniana.
Lo storico immagina che un giorno non troppo lontano, i leader di Teheran si riuniranno nella città sacra di Qom. Stabilito che l’eliminazione definitiva di Israele dalle carte geografiche preluda alla Seconda Venuta del dodicesimo profeta (il Mahdi, salvatore del mondo), Teheran decide l’attacco nucleare contro il ‘piccolo Satana’.
Allo scenario non manca nulla. Morris considera:
• i danni collaterali (i palestinesi, che Teheran vede con disprezzo, moriranno a milioni e costituiranno un tributo necessario alla causa contro il male sionista);
• i rischi per l’Iran (scetticismo nei confronti della volontà di reazione dell’Occidente, ma accettazione dell’eventuale annientamento della patria iraniana come martirio supremo per la vittoria finale dell’Islam nel mondo);
• le reazioni della comunità internazionale (fondamentalmente inesistenti, per timore delle devastanti conseguenze nei rapporti politico-economici con l’intero mondo islamico);
• le opzioni israeliane (1. impossibilità pratica di un attacco convenzionale preventivo che distrugga tutti gli impianti nucleari iraniani dislocati sottoterra; 2. improponibilità di un attacco nucleare preventivo, ché renderebbe Israele un paria della comunità internazionale; 3. inutilità di un contrattacco nucleare ad aggressione iraniana oramai avvenuta).
In definitiva, la catastrofe degli ebrei immaginata da Morris è ineluttabile. Soprattutto, egli tiene a sottolineare che questo secondo Olocausto sarà diverso rispetto a quello nazista, perché privo di qualsiasi contatto diretto tra carnefice e vittima. Infatti, «non vi saranno scene come quella che sto per raccontarvi, riportata da Daniel Mendelsohn nel suo recente libro The Lost, A Secret for Six of Six Million, in cui viene descritta la seconda Aktion dei nazisti a Bolechow, piccolo paesino della Polonia, nel settembre 1942.»
Ecco di che si tratta:
La signora Grynberg fu vittima di un episodio terribile. Gli ucraini e i tedeschi, facendo irruzione nella sua casa, la trovarono che stava partorendo. A nulla valsero le lacrime e le suppliche degli astanti: la portarono via, ancora in vestaglia dalla sua casa, e la trascinarono fino alla piazza davanti al municipio. E lì… fu spinta a forza sopra un cassonetto per l’immondizia nel cortile del municipio, e tra gli scherni e i dileggi della folla di ucraini presenti, insensibili al suo dolore, partorì. Il bambino le fu immediatamente strappato dalle braccia con tutto il cordone ombelicale. Fu scaraventato verso la folla, che prese a schiacciarlo coi piedi. Lei fu lasciata sola, con le ferite e i brandelli di carne sanguinanti, e così rimase per qualche ora, appoggiata a un muro, fino a che non fu portata alla stazione ferroviaria e, assieme agli altri, fatta salire su un vagone verso il campo di sterminio di Belzec.

Con questo brano si conclude l'articolo di Morris, ed è proprio da qui che vorrei fare una breve, forse superflua, osservazione.
Se lo storico israeliano avesse delineato il suo scenario a partire dalla vicenda della signora Grynberg, molto probabilmente non avrebbe ipotizzato l’inerzia suicida di Israele e degli ebrei americani di fronte al pericolo di un attacco nucleare dell’Iran. Ne sono convinto perché la ragione storica, l’essenza di Israele si fonda sulla memoria. Il ritorno in Palestina e l’edificazione del nuovo Stato furono motivati dal ferreo proposito secondo cui la tragedia delle tante signore Grynberg non avrebbe mai più dovuto verificarsi. Sin dalla sua nascita, Israele combatte per veder riconosciuto il diritto degli ebrei di vivere al riparo da ogni persecuzione. A fronte di qualsivoglia minaccia, rimane estraneo al vissuto e alla concezione religiosa degli ebrei l'idea di abbandonare quella lingua di terra, la terra dei padri. Non so quanti di coloro che sono scampati all’Olocausto nazista siano ancora viventi. Sono però convinto che, in un modo o nell’altro, essi abbiano tenuto vivo, nelle menti delle nuove generazioni, il ricordo dei propri cari e dei milioni di correligionari uccisi dalla follia hitleriana.
Qualora un attacco nucleare iraniano fosse alle viste, non credo che Israele rimarrebbe con le mani in mano “sperando che, in qualche modo, le cose si aggiustino da sé”; non credo che Israele si tormenterebbe nel dubbio di utilizzare, in via preventiva, il proprio arsenale nucleare contro l’Iran. Cosa importa l’estromissione dal consesso internazionale quando l’alternativa è l’annientamento definitivo? A che sarebbero valsi i tanti morti patiti in oltre cinquant’anni di vita dello Stato di Israele se poi, di fronte alla minaccia più temuta, ci si abbandona all’inerzia e alla disfatta morale?

Dio voglia che tanto Morris che il sottoscritto abbiano perso solo tempo e fantasia!

Si veda anche Vittorio Messori: sarà l’arma atomica a fermare la guerra arabo-israeliana.

Wednesday, December 20, 2006

Minori e adozioni: pur con le tante Marini, non tutto è perduto

Non scrivo assolutamente niente di nuovo, sono cose già dette e che cominciano a divenirmi pure noiose; ma su certe questioni, … repetita iuvant.
Libero oggi in edicola pubblica questo trafiletto:

«Voglio adottare un bambino, è assurdo che la legge italiana me lo vieti solo perché sono single». La frase è di Valeria Marini (…): «Lancio un appello a chi di dovere: cerchiamo di avere in fretta una legge giusta». Inoltre la showgirl si dichiara favorevole ai Pacs.

Cara Marini, ma sul serio pensa che la legge italiana sia così assurda? Secondo lei, alla crescita psicologica di un bambino non serve un padre e tutto ciò che lui rappresenta? Chi è per lei un padre? Ma che famiglie di origine, che esempi hanno avuto le Marini in circolazione per arrivare a questa esclusione di ruoli genitoriali? La politica, quella seria, non può permettersi di assecondare delle pretese che si mostrano del tutto incuranti delle esigenze dei minori e, quindi, delle future generazioni. Perché la posta in gioco è proprio questa: il bene dei figli, adottati o meno.
Di diritti tutelati dal codice civile e dell'eliminazione di forme di discriminazione verso single e coppie di conviventi etero/omo, si può anche discutere. Ma non si possono introdurre delle leggi, basate su artifizi di comodo, che toccano gli interessi dei più deboli, i bambini per l'appunto. Stiamo assistendo ad una corsa frenetica alla rivendicazione di diritti, ma, oltre all’insieme dei doveri nelle relazioni fra adulti, si trascurano soprattutto l’insieme dei doveri verso i figli, i quali, tra le altre cose, hanno l’assoluto bisogno di crescere con un padre e una madre.
A volte temo che, gratta gratta, spingi e spingi, la superficialità e l’incoscienza riusciranno a prevalere. Anche perché le pretese di tanti irresponsabili sono fatte proprie da una certa parte politica, il “chi di dovere” a cui la Marini lancia il suo appello.
Però poi, mi rendo conto che c’è anche gente - ed è la maggioranza - che continua ad avere i piedi per terra. Libero infatti, in un altro articolo, cita questi dati:

«Un sondaggio condotto da “Eurobarometro”, l’Istituto di ricerca della Commissione europea, mostra come solo un italiano su tre sia favorevole al matrimonio tra omosessuali, il 31% contro una media dei 25 Paesi della Ue del 44% (la punta è l’Olanda con l’82%). Percentuale che scende ancora, al 24% (contro il 32% della media europea), sull’adozione di un bimbo da parte di una coppia omosessuale».

Non tutto è perduto!

Wednesday, December 13, 2006

Famiglia alternativa? La risposta sfuggita a Otto e mezzo

Nella puntata di Otto e mezzo trasmessa ieri sera si parlava delle coppie di fatto omosessuali. È stato ripreso il concetto che il matrimonio trova il suo fondamento nella procreazione. Da qui emerge la famiglia ‘tradizionale’ o ‘naturale’ così come stabilita dalla Costituzione. Ne consegue che, in forza dell’assenza del fine procreativo, è insensato attribuire a coppie omosessuali diritti e doveri assimilabili, se non addirittura equivalenti, a quelli prodotti dal matrimonio.
Un ospite del programma, di cui non ricordo il nome, ha riproposto il concetto di famiglia di chi sostiene il matrimonio omosessuale, ovvero quello secondo cui basta l’affetto che lega due persone. Obiettando l’ammissibilità esclusiva del matrimonio eterosessuale, costui ha poi affermato che, se ci si limita a considerare la finalità della procreazione, non si comprende perché viene riconosciuto dalla legge e dal sentire comune il matrimonio di coppie etero sterili e di coppie etero formate da anziani.
Né Ferrara, né l’Armeni, né gli altri partecipanti alla trasmissione hanno replicato a questa argomentazione. Sarebbe stato invece opportuno ribadire che la capacità procreativa è insita nelle coppie etero. Ovviamente, tale capacità non c’è nel caso specifico di coppie sterili e di coppie anziane, ma ciò costituisce l’eccezione che conferma la regola. Al contrario, alle coppie omo la capacità procreativa è sempre e comunque preclusa per natura.

Thursday, December 07, 2006

Il corpo di Piergiorgio non è un caso esemplare

Ha trasformato la sua storia in una questione politica, ma la sua esperienza non è un valore universale

Piergiorgio Welby sta diventando sempre più un simbolo astratto, lo strumento improprio di una guerra culturale e ideologica, non il protagonista di una struggente storia di sofferenza personale. La confusione è alimentata dal fatto di essere un militante radicale, e dunque il suo dare corpo, il proprio corpo, alla battaglia sull’eutanasia, è anche un effetto consapevolmente cercato. Invece forse sarebbe necessario separare quanto nella sua situazione è legato alla irriducibile unicità di ogni destino individuale, e quanto si può ricondurre a criteri generali e a questioni di diritto più ampie; in altre parole, un conto è tentare di risolvere il problema umano del malato Welby, un conto stabilire che il suo caso ha connotazioni talmente tipiche e di interesse generale da richiedere una soluzione legislativa su misura.
Nel 2002 Welby, da tempo affetto da sclerosi laterale amiotrofica, scriveva: «Poniamo il caso che un medico vi dicesse: Mi dispiace, lei ha una malattia incurabile e le resta poco da vivere. A questo punto dovrò farle un buco in pancia (gastrostomia) per poterla alimentare. Dovrò praticarle un foro nel collo (tracheostomia) per permetterle di respirare (...) In queste condizioni, tuttavia, potrà vivere ancora qualche anno o più. E poniamo poi il caso di un altro medico che invece vi dicesse: Mi dispiace, lei ha una malattia incurabile e le resta poco da vivere, però noi potremmo ridurre le sue sofferenze al minimo e, su sua richiesta, procurarle una morte indolore. Voi quale dei due medici scegliereste?».
La domanda andrebbe articolata in maniera un po’ diversa. Per la legge italiana il medico non può procurare attivamente la morte, ma il paziente può rifiutare la cura, anche se il suo rifiuto crea dilemmi etici laceranti. Chi ritiene che vivere appesi ai tubi sia una menomazione intollerabile, ha tutto il diritto di dire no pur sapendo di andare incontro alla morte, e optare quindi per cure palliative, per forme di sedazione che attutiscano la sofferenza. Quando però Welby si è trovato davanti alla tragica scelta, contrariamente a quanto aveva scritto, ha deciso per la respirazione artificiale. Secondo il suo racconto, a cui crediamo pienamente, è stata la moglie a non rispettare le sue raccomandazioni. Questo però non risolve il problema, anzi ne apre altri: se lasciar morire un malato che soffre è un atto di pietà, come mai l’istinto amoroso porta a disobbedire a qualcuno pur di prolungargli l’esistenza? E perché se nemmeno una persona cara ha questo coraggio, lo deve avere un medico il cui scopo professionale è salvare vite umane? Francesco D’Agostino chiedeva, in un dibattito, quale dottore rinuncerebbe a prestare ogni cura possibile a chi abbia compiuto un tentativo di suicidio, solo perché ha in tasca una lettera in cui esprime al di là di ogni dubbio la propria volontà di morire.
Ancora oggi, secondo quel che hanno detto gli specialisti che ad ottobre si sono riuniti nella sede del Partito radicale per discutere il caso Welby, staccare quella spina si può. Se il problema fosse soltanto interrompere la respirazione artificiale e lenire le sofferenze che ne seguono, la soluzione si troverebbe, come ha affermato anche il presidente dell’Ordine dei medici, Amedeo Bianco. Ma Welby non vuole questo. La sua richiesta è un’altra: «È mia ferma decisione rinunciare alla ventilazione polmonare assistita. Staccare la spina mi porterebbe ad una agonia lunga e dolorosa. Anche una sedazione protratta nel tempo non mi garantirebbe una morte immediata senza dolore. Chiedo: è possibile che mi sia somministrata una sedazione terminale che mi permetta di poter staccare la spina senza dover soffrire?». Welby non chiede un accompagnamento medico verso una fine il più possibile priva di sofferenze, ma una sedazione terminale con effetti immediati, cioè un suicidio di stato.
Emanuele Severino sostiene che esiste una grave disparità tra chi può darsi la morte autonomamente e chi invece non può farlo, e che il suicidio assistito servirebbe soltanto a ristabilire l’equilibrio. Dimentica che, se la legge non punisce più chi tenta il suicidio, non è ancora arrivata a promuoverlo, e che una legge interiore, non scritta (possiamo chiamarla naturale?) ci spinge a contrastare l’aspirante suicida, fino a salvargli la vita suo malgrado. L’equivalenza, poi, si stabilirebbe solo se si prescrivesse per legge un aiuto statale per chiunque, causa incapacità pratica o mancanza di coraggio, desideri morire e non ce la faccia. Con questa logica si potrebbe decidere che chi esprime con assoluta chiarezza la propria volontà di buttarsi dal balcone o infilare la testa nel forno vada assistito da un pubblico ufficiale. Perché un impedimento di ordine psicologico deve avere meno peso di uno di ordine fisico? E perché non ammettere l’eutanasia anche per le sofferenze psichiche, come in Belgio? Una volta che lo Stato entra nella delicata questione, è giusto che fornisca assistenza a chiunque ne senta il bisogno, senza discriminazioni.
Il caso Welby può valere come una sollecitazione a occuparsi dei problemi connessi con la dignità della fine, dalla necessità di incrementare il ricorso alle cure palliative a quella di evitare l’accanimento terapeutico, e il presidente Napolitano ha fatto bene a non lasciare cadere nel silenzio la sua lettera. Ma in nessun modo può diventare un caso esemplare su cui costruire una legge, così come non lo possono diventare le mille storie di sofferenza personale, diversissime tra loro, di tanti malati che avrebbero qualcosa da dire sulla situazione della sanità italiana, ma che nessuno interroga.

Eugenia Roccella (il Giornale)

Tuesday, December 05, 2006

Sulla ‘dolce’ morte

nullo, in Digiuno di morte, sostiene la rivendicazione di Piergiorgio Welby di esser lasciato morire. Pubblico le parti salienti dello scambio di opinioni col sottoscritto. Qui non si tratta di prendersi troppo sul serio; è l’argomento ad essere fin troppo serio.

Hoka Hey
Da cattolico, la questione mi crea dubbi tremendi. Ogni volta che guardo le immagini di Welby e penso che lo stesso potrebbe accadere a me, sono in difficoltà.
Da cristiano - spero di esserlo ancora per quello che sto per dire - penso, o meglio, comincio a pensare che la decisione di un adulto di morire riguardi solo lui e la sua coscienza. L'anima se la sbrigherà con Dio quando sarà al Suo cospetto.
Mi rendo conto che la morte di un uomo e la sua scelta di morire non riguardino effettivamente solo lui, ma tutta l’umanità. Però, se è vero, come è vero, che Dio ci ha dotati di libero arbitrio, vuol dire anche che, almeno in quei momenti, quando cioè viene fuori tutto ciò che c’è nell’uomo, lui possa decidere di se stesso. Ho grande rispetto per chi voglia morire in conseguenza di una malattia i cui effetti vanno al di là della sua capacità di sopportazione. Il problema che mi angustia però è questo: e se anche il dolore legato alla malattia fosse volontà di Dio? Chi sono io per dire a Dio: non me ne frega niente dei tuoi progetti, del tuo disegno per me e per l’umanità? Ovviamente, mi riferisco a me stesso nei panni di Welby. Lui è ovviamente libero di scegliere quello che ritiene più opportuno.

nullo
(…) Riconoscere, cristianamente, (…) che la morte sia una questione tra l’individuo e dio, mi sembra una maniera per riconoscere la libertà di coscienza dell’individuo - che è tutto quello che chiediamo.
Con i cattolici (…) si può dialogare. La domanda è: sarà possibile dialogare anche con il Vaticano?

Hoka Hey
(…) Un adulto, diversamente da un bambino, ha autonomia di giudizio. Io sono fra quelli che sono contrari tanto all’eutanasia dei bambini, che all’aborto che alla soppressione degli embrioni per fini scientifico-terapeutici. In altri termini, io penso che nessuno possa decidere della morte di chicchessia. Un uomo può decidere solo della propria morte. Ok, conosco l’obiezione: ma tu accetteresti di uccidere una persona gravemente malata che da sola non può togliersi la vita? No, perché certe cose appartengono solo a Dio. E tutto ciò mi mette ancora più in crisi.

nullo
C’è il dilemma intermedio su cui vorrei la tua posizione. Dici che al diretto interessato deve essere concesso di decidere di morire, ma che né tu, né nessuno, ha il diritto di decidere per lui/lei. Ma se la decisione è stata presa dal diretto interessato, autonomamente, tu permetteresti che qualcun’altro la metta in atto?

Hoka Hey
Se fossi io il medico, non staccherei la spina, perché farlo significherebbe sostituirmi a Dio. Capisco che è il malato ad autorizzarmi, ma io mi rifiuterei.
Se fossi io il malato, vorrei che qualcuno lo facesse per me, credo, ma, in un momento di lucidità, comprenderei il rifiuto altrui di assecondarmi.
Se un medico decidesse di assecondare la richiesta di un malato di staccare la spina, penso che sarebbero due le anime che dovranno vedersela con Dio, ma mi asterrei dall'esprimere giudizi su entrambi (medico e malato).
In altri termini, penso che la concreta attuazione di farla finita spetti solo e unicamente al malato. Non coinvolgerei nessuno, perché solo io sono responsabile di fronte a Dio delle mie azioni. Ammetto che sarei tormentato dal pensiero di offenderLo, però, se fossi veramente disperato, Lo pregherei di perdonarmi.

nullo
Quindi, mi sembra, suicidio sì, ma eutanasia no. Questa è la tua posizione. Sbaglio?

Hoka Hey
Sì, suicidio. Povero me!

Thursday, November 30, 2006

Perché i cattolici credono in Dio?

Su Il Giornale di ieri, Giordano Bruno Guerri citava un’affermazione di Rita Levi Montalcini, secondo cui l’educazione laica ha «il grande merito di rendere gli individui responsabili dei propri comportamenti in forza di principi etici e non allo scopo di ottenere un compenso o sfuggire ad una punizione in una ipotetica vita ultraterrena». Giordano Bruno Guerri si mostra d’accordo con la scienziata nel “riconoscere una sorta di superiorità morale in chi opera il bene o evita il male senza speranza o timore di premi o punizioni eterni”.
Ammetto che, in genere, non do peso alle prese di posizione della signora Montalcini su temi di rilevanza etico e sociale (vedi il suo sostegno al Sì nel recente referendum sulla procreazione assistita), però in quest’occasione mi sembra che abbia fornito uno stimolo di riflessione per i cattolici. Lo stesso merito va riconosciuto, ovviamente, a Giordano Bruno Guerri.
La loro tesi è che la fede si nutre di un mero calcolo utilitaristico. Sarebbe interessante conoscere la risposta dei cattolici. Che cosa c’è alla base della fede in Dio? Perché un cattolico si sforza di comportarsi in modo conforme al dettato evangelico? Che rilevanza un cattolico attribuisce all’aspettativa, dopo la morte, di una ricompensa o di una punizione da parte di Dio? Infine, è proprio vero che i cattolici maturi orientano la loro fede in Dio soprattutto in base al criterio del do ut des, oppure sono mossi da qualcos’altro?

Friday, November 24, 2006

Facciamo un po’ di luce sulla strategia gay?

Verso la fine degli anni ’80 la rivoluzione omosessualista, che si ispirava alla lotta di classe di impronta marxista, conobbe un momento di crisi: gli atti omosessuali provocatori in luogo pubblico, la bizzarria dei travestimenti, il sadomasochismo esibiti in parate “dell’orgoglio gay” e la vicinanza con associazioni pedofile (NAMBLA), anziché migliorare l’accettazione sociale dell’omosessualità, avevano accresciuto nella società diffidenza e antipatia nei confronti dell’omosessualità e del movimento gay.
Nel 1989 due intellettuali gay, Marshall Kirk (ricercatore in neuropsichiatria) e Hunter Madsen (esperto di tattiche di persuasione pubblica e social marketing) furono incaricati di redigere un manifesto gay per gli anni ’90: il risultato è il libro After the ball. How America will conquer its fear & hatred of Gays in the 90’s, un vero e proprio “manuale” di strategia per combattere il “bigottismo antigay”.
Perché gli anni ’90 avrebbero potuto fornire l’occasione per cambiare le cose? Gli autori lo ammettono tanto candidamente quanto cinicamente: l’esplosione dell’AIDS dava ai gay la possibilità di affermarsi come una minoranza vittimizzata, meritevole di attenzione e protezione.
Gli autori propongono tre tattiche, che si possono riassumere in questo modo.
1. Come tutti i meccanismi di difesa psico-fisiologici, spiegano gli autori, anche il pregiudizio antigay può diminuire con l’esposizione prolungata all’oggetto percepito come minaccioso. Bisogna quindi “inondare” la società di messaggi omosessuali per “desensibilizzare” la società nei confronti della minaccia omosessuale.
2. È necessario presentare messaggi che creino una dissonanza interna dei “bigotti antigay”. Ad esempio, a soggetti che rifiutano l’omosessualità per motivi religiosi, occorre mostrare come l’odio e la discriminazione non siano “cristiani”. Allo stesso modo, vanno enfatizzate le terribili sofferenze provocate agli omosessuali dalla crudeltà omofobica.
3. L’obiettivo finale è quello di “convertire”, ossia suscitare sentimenti uguali e contrari rispetto a quelli del “bigottismo antigay”. Bisogna infondere nella popolazione dei sentimenti positivi nei confronti degli omosessuali e negativi nei confronti dei “bigotti antigay”, paragonandoli, ad esempio, ai nazisti, o instillando il dubbio che il loro atteggiamento sia la conseguenza di paure irrazionali e insane (la cosiddetta “omofobia”).
Kirk e Madsen declinano queste tre tattiche in una serie di strategie e principi pratici. Ad esempio, essi individuano tre gruppi di persone, distinti in base al loro atteggiamento nei confronti del movimento gay: “gli intransigenti”, stimati in circa il 30-35% della popolazione; “gli amici” (25-30%) e gli “scettici ambivalenti” (35-45%). Questi ultimi rappresentano il target designato: a loro bisogna dedicare gli sforzi applicando le tecniche di desensibilizzazione (con quelli meno favorevoli) e di dissonanza e conversione (con i più favorevoli). Le altre due categorie, gli intransigenti e gli amici, vanno rispettivamente “silenziati” e “mobilitati”, con ogni mezzo.
Un’altra indicazione che gli autori suggeriscono è quella di “intorbidare le acque della religione”, cioè dare spazio ai teologi del dissenso perché forniscano argomenti religiosi alla campagna contro il “bigottismo antigay”.
Sarà inoltre opportuno non chiedere appoggio «per l’omosessualità», ma «contro la discriminazione». Per stimolare la compassione, i gay devono essere presentati come vittime:
a) delle circostanze; per questo motivo, dicono gli autori, «sebbene l’orientamento sessuale sia il prodotto di complesse interazioni tra predisposizioni innate e fattori ambientali nel corso dell’infanzia e della prima adolescenza», l’omosessualità deve essere presentata come innata;
b) del pregiudizio, che deve essere presentato come la causa di ogni loro sofferenza.
I gay devono, inoltre, essere presentati come membri a tutti gli effetti della società, addirittura come “pilastri” della stessa. Basta individuare una serie di personaggi storici famosi, noti per il loro contributo all’umanità, come gay: chi mai potrebbe discriminare Leonardo da Vinci?
Gli autori diedero indicazioni precise anche alle associazioni omosessuali e lesbiche in conflitto tra loro: è bene che ci sia una sola associazione portavoce del mondo omosessuale, e che sia gay; ovviamente gli omosessuali-non-gay sono, in questo modo condannati all’invisibilità.
Un’altra strategia per rendere “normale” l’omosessualità agli occhi delle persone consiste nel richiedere unioni, matrimoni e adozioni gay; non tanto perché i gay non vedano l’ora di sposarsi e metter su famiglia, quanto piuttosto perché, agli occhi dell’opinione pubblica, se anche i gay desiderano formare una famiglia e avere dei bambini appaiono rassicuranti, tradizionali. Inoltre, chi potrebbe, in questo modo, accusare il movimento gay di voler sradicare l’istituto matrimoniale e familiare?
Il saggio di Kirk e Madsen si conclude con queste parole: «Come vedi, la baldoria è finita. Domani inizia la vera rivoluzione gay».

Tratto da Abc per capire l’omosessualità, San Paolo, 2005, pp. 39-40.

Alla redazione del libricino hanno collaborato: Chiara Atzori, Jennifer Basso Ricci, Medua Bodoni, Marco Invernizzi, Roberto Marchesini, Giacomo Perego, Giancarlo Ricci, Laura Solvetti, Guido Testa. Com'era prevedibile, le credenziali professionali di chi ha stilato le varie sezioni dell'opera sono state messe in dubbio dal movimento gay italiano. La strategia della delegittimazione nei confronti di chi non rimane nei ranghi è puntualmente arrivata, ancor più per il fatto che la proposta informativa è stata realizzata in ambito cattolico.
Per quanto mi riguarda, ho trovato in quest’Abc alcune informazioni interessanti - del tipo di quelle menzionate in questo post -, e, diffondendole, reputo di far cosa utile alla comprensione dell’imperante “bigottismo gay”.

Wednesday, November 22, 2006

Ma quei prof umiliati sono uomini o caporali?

In questi giorni si fa un gran parlare degli episodi di violenza nelle scuole da parte di adolescenti ai danni di coetanei. Lungi da me aggiungere ulteriori parole alle tanto sagge e meditate interpretazioni del fenomeno (crisi della famiglia, crisi della scuola, crisi della società, assenza di responsabilità individuale, buonismo imperante, il ’68, la foca monaca, il gelato Sammontana…). Qui vorrei solo citare un brano di un articolo comparso oggi su Il Giornale e fare delle osservazioni da bar.
Ne ‘I prof umiliati difendono i bulli e Fioroni se la prende coi reality’, Nino Materi cita alcuni esempi di prepotenze di studenti ai danni, questa volta, di insegnanti:
Prendete, ad esempio, il docente di Italiano dell'istituto agrario «Kennedy» di Monselice (Padova) al quale i suoi alunni sono arrivati addirittura a «impacchettare» la testa in un foglio di giornale: uno dei video della vergogna più cliccati sul web.
La scena choc si conclude con il professore che si limita a dire: «Allora, la smettete?».
Un atteggiamento incredibilmente soft che il docente veneto conferma anche ora che il «film» è diventato di dominio pubblico: «Si è trattato di uno scherzo di cui non avevo più memoria...». Dello stesso tenore le dichiarazioni del suo collega al quale uno studente ha quasi ribaltato addosso la cattedra; idem per il docente a cui un allievo punta una pistola (giocattolo, si spera) alla tempia e del professore di educazione fisica al quale un alunno abbassa il pantalone della tuta: scene impietosamente immortalate dai telefonini e da qui inserite in rete alla stregua di trofei scolastici. «Goliardia», eccola la parola giustificazionista più usata dai professori entrati nel mirino dei bulli, ai quali i docenti vessati non solo non rifilano due bei calci nel sedere (rischiando però così di passare dalla parte del torto e magari di venire linciati da genitori e mass media) ma nei cui confronti riservano parole fin troppo comprensive: «Si tratta di ragazzi vivaci che vanno recuperati...». Con qualche ceffone? Guai a usare le mani: queste possono alzarle solo gli studenti sui professori.

Domando: ma dov’è finito l'amor proprio, la dignità, l'orgoglio di questi insegnanti? Come può un uomo accettare di essere trattato nei modi sopra descritti da uno stronzetto di 16, 17 o 18 anni? E per quale motivo questi insegnanti non prendono a ceffoni e a calci in culo i suddetti stronzetti? Per non ‘venire linciati da genitori e mass media’!!!
Io non credo che un uomo possa rimanere indifferente in situazioni simili; non credo che si possa vivere in pace con se stessi lasciando correre tali episodi di prepotenza. Come possono degli uomini continuare a guardarsi nello specchio e a guardare negli occhi le proprie mogli, sapendo di non aver reagito? E con quale autorità morale possono insegnare ai propri figli? Sono questi gli educatori di sesso maschile che fanno scuola nelle nostre scuole? Non sono sicuro che si tratti di casi isolati. E non mi sembra inopportuno parafrasare Cesare Pavese: ciò che è toccato loro non è per caso che è toccato.

Tuesday, November 21, 2006

L’integralismo religioso secondo Maurizio Crozza




Che cos’è l’integralismo religioso? È una religione con tanta crusca. E infatti ti fa fare delle grandi cacate.

Friday, November 17, 2006

A Otto e mezzo, una chiacchierata con Giovanni Lindo Ferretti

Metto giù qualche riga su Giovanni Lindo Ferretti, ospite a Otto e mezzo qualche sera fa.
Ferretti, l’ex leader del complesso punk CCCP, marxista convinto per buona parte della sua vita, vive in un piccolo paese dell’Appennino emiliano. Paesaggi mozzafiato e quattro anime. Così come quattro sono i cavalli che il nostro alleva e a cui è affezionatissimo.
Ferretti ha viaggiato molto (Russia, Mongolia, Cina) e ha conosciuto il dolore fisico (sette interventi chirurgici e l’asportazione di un polmone). A proposito della sua storia personale, ha rivelato: Quando, l’ultima volta, sono uscito dall’ospedale, avrei voluto scrivere una lettera ai miei migliori amici. Volevo augurare loro una grande sofferenza, perché il dolore schiude una porta importante nella vita (cito a memoria).
Parlando delle sue origini, ha detto: Provengo da una famiglia legata alle radici, alle tradizioni e alla terra. A mia nonna, una donna dalla personalità forte, devo molto di quello che sono.
Ferretti si è convertito al cattolicesimo. Alle scorse elezioni politiche, ha votato per la Casa delle Libertà. Giuliano Ferrara gli ha chiesto perché. “È stato un ritorno a casa”.
Ferretti scrive articoli, alcuni comparsi su Il Foglio, e di recente ha pubblicato un libro, Reduce. Oggi ciò che è anormale è diventato normale, e una persona normale è vista con sospetto. E inevitabilmente finisce per rimanere sola.

Tuesday, November 14, 2006

Le parole che non si dicono

Perché per molti padri è così difficile dire: ‘Figlio mio, sono fiero di te’? E perché per molti figli è così difficile dire: ‘Papà, mamma, sei il miglior genitore che potessi avere’?

Thursday, November 09, 2006

Pillole 12

Il male si nasconde tra le pieghe del bene. Vivaddio, si verifica anche il contrario.

‘Quella strana alleanza contro Usa e Israele’

Su il Giornale di oggi, Paolo Granzotto risponde al seguente quesito di un lettore: Mio padre mi ha sottoposto un argomento di riflessione: perché gli estremisti di destra e di sinistra sono stati sempre attratti dai musulmani, ovviamente correlato da esempi storici da Napoleone in poi. Mi aiuta a svolgere il tema?
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A voler fare esempi storici di qualche rilevanza occorre spingersi un po' più indietro di Napoleone, gentile lettrice. E arrivare a Carlo IX di Francia, unico monarca cattolico a non aderire alla Lega Santa e quindi a non prender parte alla gloriosa battaglia di Lepanto. A spingerlo a quella scelta fu il desiderio di non guastare gli ottimi rapporti con la Sublime Porta (che mettevano al riparo la flotta mercantile francese da, diciamo così, brutti incontri in mare) e di impedire, rifiutando di darle manforte nella lotta contro i turchi, che la Spagna consolidasse il suo ruolo nel Mediterraneo.
In quanto a Napoleone, il suo filoislamismo traeva da un lato dalla riconoscenza nei confronti dell'Impero ottomano, la sola grande potenza a mantenere i rapporti con la Francia della Rivoluzione e del Terrore, dall'altro dalla lezione di Voltaire. Il quale, dopo aver trattato Mosé da stregone e Cristo da fanatico ebreo impostore, giudicò Maometto il campione della tolleranza e del buon senso e l'Islam l'unica religione che non fosse una «setta», ma un saggio, severo, casto e umano - proprio così, anche umano - insegnamento. La tentazione di illustrare meglio le fregole filoislamiche di Voltaire è forte, gentile lettrice. Ma andremmo fuori tema e non si fa. Sistemata la storia, passiamo alla cronaca. Credo che il suo babbo intendesse porre l'accento sul fatto che l'estrema destra e l'estrema sinistra - potremmo chiamarli, tanto per semplificare, comunisti e fascisti - si ritrovino concordi nel parteggiare per l'Islam, l'islamismo e gli islamisti e ciò pur militando in schieramenti ideologici opposti, se non antitetici. Come mai?
Il sottofondo di questa identità è di natura sentimentale. Per gli uni si tratta di nostalgia per le spade dell'Islam e di fedeltà al nazismo filoislamico. Non le starò certo a ricordare, gentile lettrice, la figura del Gran Muftì di Gerusalemme - il palestinese Amin al-Husseini - e i suoi strettissimi rapporti con Hitler.
Per l'altra parte, valgono invece le nostalgie di quando l'Unione Sovietica vegliava sul Medio Oriente (e il suo petrolio) allevando uno via l'altro i Nasser, i Mossadegh e i Khomeini, di quando faceva muro contro l'«imperialismo yankee» affollando la regione di «consiglieri», rifornendo di armi, aiuti economici, assistenza tecnica la Siria e l'Irak baathista, l'Egitto nasseriano ed ogni altra «democrazia popolare» che si facesse avanti. In entrambe si agita poi una percepibile componente antisemita - sentimento molto vivo non solo nella Germania nazista e nel fascismo della «Difesa della razza», ma anche, eccome, nell'Urss stalinista e poststalinista - e che, alla estrema destra, sconfina nel fondamentalismo religioso (gli ebrei deicidi). Ciò si traduce nell'antisionismo, con la conseguenza di schierarsi a favore di chi più brutalmente avversa Israele, l'Islam. A far da mastice a tutto ciò è il risentimento, che assume spesso se non sempre l'aspetto dell'odio, nei confronti degli Stati Uniti. Vista da destra l'America è la responsabile della disfatta dell'Asse perché senza il suo intervento in guerra, senza la colossale fornitura di armi, munizioni, carri armati, aerei, materie prime, dollari all'Unione Sovietica, Hitler e Mussolini sarebbero morti nei loro letti. Come Franco. Vista da sinistra l'America, il capitalismo, la democrazia, i valori occidentali sono colpevoli del crollo del comunismo, sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. È dunque per spirito di revanche (uno spirito che ha sempre portato male, fra l'altro) che si verifica questo affratellamento nel sostegno senza se e senza ma all'Islam. Unica forza e unica ideologia nella quale riporre le speranze di regolare i conti con gli americani e, per far buon peso, anche con gli israeliani.

Wednesday, November 08, 2006

Differenza tra guerriglia e terrorismo? Risposta semplice e di buonsenso

Leggo su il Giornale di oggi un’intervista a Roberto Toscano, ambasciatore italiano in Iran, che ha scritto un libro dal titolo ‘La violenza, le regole’.
Riporto un brano dell’intervista in cui il diplomatico spiega la differenza tra guerriglia e terrorismo.
Il terrorismo si definisce per l’intenzione e per la natura del bersaglio: un bersaglio militarmente irrilevante ma che si vuol colpire per piegare la volontà dell’avversario. Di conseguenza, gli stessi soggetti che operano per la stessa causa possono essere terroristi o guerriglieri: un palestinese che attacca un carro armato israeliano è un guerrigliero, lo stesso soggetto che mette una bomba su un autobus, o si fa saltare in aria fra gli avventori di un caffè, è chiaramente un terrorista. Non vedo perché debba essere così difficile accettare questa distinzione. A meno, ovviamente, di voler dire che quando usano le armi i nostri non sono mai terroristi, e gli altri sempre. Nel mio libro cito un caso estremamente interessante. Quello di un giornalista olandese simpatizzante della causa palestinese che si reca nei Territori Occupati per scrivere, con comprensione e solidarietà, sugli attentatori suicidi e sulle loro famiglie, ma che a un certo punto viene colto da un pensiero che gli fa cambiare atteggiamento. Scrive: “Improvvisamente mi sono ricordato del fatto che mio padre era un combattente della Resistenza contro i nazisti. Lui non avrebbe mai messo una bomba su un autobus di civili tedeschi”.

Più chiaro di così! Ma si sa, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Monday, November 06, 2006

Radicali Italiani e Riformatori liberali: per un cattolico, pari sono

Prendo spunto da un post di Stato Minimo per dire la mia sulle due anime del radicalismo italiano, di cui si parla tanto in questi giorni, vuoi per il teatrino messo in scena da Pannella-Bonino e Capezzone, vuoi per il manifesto dei Riformatori Liberali. Cosa ancor più importante, vorrei spendere qualche parola sulla questione cattolicesimo-liberalismo-radicalismo.
Detto in modo sbrigativo, Pannella, Capezzone, Bonino & C. mi sono sempre sembrati degli sbandati, dei senza regole, con tutto il loro professarsi liberali, liberisti e libertari. A mio parere, i leader radicali non sono molto diversi da quegli adolescenti a cui i genitori hanno sempre rifiutato qualche salutare scapaccione. Non mi piace il loro laicismo esasperato, senza limiti e intollerante, che confina poi con il relativismo. Non mi piace il fatto che, per loro, il liberalismo coincida con l’anticlericalismo, come dice anche Stato Minimo.
E i Riformatori Liberali? Da una lettura del loro manifesto, Diamo un’anima libertaria al centrodestra, mi sembrano emergere delle indicazioni rilevanti per un cattolico.
1. Politica interna. I Radicali di Pannella si sono alleati con il centrosinistra ritenendo che questo possa più facilmente attuare le loro istanze riformiste; i Radicali di Della Vedova si schierano invece col centrodestra, riconoscendo in quest’ultimo una volontà riformista più concreta e seria. Fin qui, nulla da segnalare. Si tratta di tatticismi frequenti in politica.
2. Scontro di civiltà. I Radicali di Pannella difendono l’Occidente in nome del liberalismo, ma non vogliono sentir parlare di origini cristiane della sua civiltà, perché hanno in odio la Chiesa cattolica e qualunque religione; i Riformatori Liberali accettano le radici cristiane dell’Occidente, dato che hanno tra le loro fila dei cattolici. Va bene che il mondo è bello perché è vario, ma, pensando proprio ai cattolici che si schierano con i riformatori di Della Vedova, conviene scavare un po’ più a fondo sulle differenze.
3. Temi sociali. Qui, secondo me, casca l’asino. Infatti, entrambi spingono, in nome della libertà e con sfumature più o meno accentuate, in favore della sperimentazione sulle cellule staminali, l’eutanasia, i PACS nonché i matrimoni e le adozioni gay.
A naso, mi sembra che qualcosa sfugga ad un cattolico che, tra visione liberale, liberista e libertaria, da una parte, e i propri riferimenti religiosi, dall’altra, non vede una contraddizione. È sufficiente dire, come fa qualche cattolico radicale, che il dilemma si risolve con il fatto che il credo religioso rimane nella sola sfera privata? Ma si può veramente condividere o lasciar passare in sede pubblica ciò che contrasta con le proprie convinzioni religiose? E tutto ciò in nome della libertà? Anche quando il sostegno a questa ‘libertà’ vuol dire contrastare l’idea cristiana di società libera? Delle due l’una, o non si è compreso molto del cattolicesimo, oppure non può un liberale, che sia anche cattolico, vedere nel radicalismo (Radicali Italiani o Riformatori Liberali) un punto di riferimento politico.


Si veda anche Capezzone il cialtrone.

Thursday, November 02, 2006

‘Le nuove suocere e il matrimonio’

Segnalo quest’articolo di Claudio Risé. L'immagine a corredo del testo, pescata in rete, è stata inserita dal sottoscritto.
Davvero le suocere sono fra le prime cause di fallimento matrimoniale? Questa tesi, illustrata da proverbi popolari in tutte le regioni italiane (e già questo significa qualcosa), viene ora riproposta dagli psicologi, che nei loro colloqui vedono comparire il fantasma di una suocera prepotente dietro a moltissimi matrimoni in crisi: uno su tre, a quanto pare. Non si tratta tanto del ritorno di un vecchio stereotipo, quanto del ripresentarsi, in un mondo trasformato, di una questione reale, apparentemente aggravatasi nel frattempo: la fatica dell’essere umano ad uscire dalla dipendenza dalla madre.
In fondo, sull’osservazione di questo fenomeno è nata la psicoanalisi, che continua ad essere la solida base di studio dei moti profondi dell’animo umano. L’affetto ed il bisogno dell’attenzione materna porta il figlio all’ostilità verso il padre, che della madre è il legittimo compagno, e soprattutto lo porterà poi a richiedere alla moglie le stesse attenzioni, le stesse gratificazioni, a suo tempo ricevute, o desiderate, dalla madre. Quando la moglie percepisce di essere vista come madre, e non come donna, amante, compagna, si disamora, ed il rapporto entra in crisi.
Il giovane maschio, però, non combina questo guaio, per solito, tutto da solo. La madre, che diventa suocera dopo il matrimonio, cerca in lui spesso, fin dall’infanzia, gratificazioni e conferme. Per non perderlo poi, mette di frequente in guardia il figlio nei confronti delle altre donne. La frase “nessuna ti amerà come me” riassume bene questo accaparramento materno, che è anche un allontanamento delle altre donne.
Dopo il matrimonio dei figli, queste madri tendono spesso a far gravitare sulla propria casa la giovane coppia, ed a mettere in rilievo le inadeguatezze della moglie. Il figlio di queste madri potenti, per costruire e difendere la relazione affettiva con la moglie, deve realizzare una dolorosa presa di distanza dalla madre, che spesso non accetta di “dividerlo” con un’altra.
Il problema della persistenza dell’immagine materna nel matrimonio, come contrapposta a quella del coniuge, non riguarda però solo i maschi. Lo stesso Freud, il fondatore della psicoanalisi, nei suoi lavori più tardi ammise di aver sbagliato a centrare tutto il suo edificio sul “complesso di Edipo”, che lega il figlio alla madre, senza vedere quanto anche la figlia rimanga legata, e addirittura identificata, con la figura materna.
Alla giovane donna la persistenza di un legame privilegiato con la madre, pone ancora un problema in più. Perché essendo la madre del suo stesso sesso, la forza del legame con lei rende alla donna più difficili tutti i rapporti con l’uomo, che rappresenta l’altro da sé, il diverso. Il rischio della simbiosi, della fusione, della non identificazione di sé come soggetto separato ed autonomo (che rappresenta l’aspetto più delicato del rapporto con la madre), è particolarmente forte nella donna. Che, quando scopre che il marito non rispecchia puntualmente i suoi gusti, i suoi bisogni, il suo stile di vita, non è insomma una mamma, oggi, sempre più spesso, lo lascia. E torna da mammà. Neppure lì, tuttavia, sta bene, perché ogni essere umano ha bisogno di vivere la propria vita in prima persona, non continuando a rispecchiarsi in chi lo mise al mondo, molti anni prima. Da qui molti malesseri caratteristici di una irrisolta relazione tra madre e figlia, a cominciare dai gravi disturbi alimentari dell’anoressia, o bulimia.
A minacciare il matrimonio non sono dunque tanto le suocere, quanto le madri che non accettano di emancipare i propri figli.

L’iniziazione

«È per la prima volta […] che i kybuchu [bambini tra i sette e gli otto anni e, più tardi, nell’età di essere riconosciuti come adolescenti] cantano, timidamente; la loro bocca, ancora inesperta, modula la prerä [canto riservato agli uomini] degli uomini. Laggiù in fondo i cacciatori rispondono con il loro canto, incoraggiando quello dei futuri beta pou [nuovo iniziato]. Le loro voci echeggiano a lungo; intorno, nella notte silenziosa, brillano i fuochi. D’improvviso, come una protesta, come un gemito di rimpianto e di dolore, si odono le voci delle donne: le madri dei giovani. Esse sanno che fra poco perderanno i loro ragazzi, che presto non saranno più i loro memby [bambino piccolo] ma uomini degni di rispetto. Il loro chenga ruvara [canto riservato alle donne] rappresenta l’ultimo sforzo per fermare il tempo, ma è anche il primo canto di separazione che celebra una rottura. Il rifiuto in forma di canto-lamento da parte delle donne di accettare l’inevitabile appare agli uomini come una sfida: la loro prerä si rafforza, diventa violenta, aggressiva e quasi sopraffa l’umile lamento delle madri che sentono i loro figli cantare alla maniera degli uomini. Essi sanno di rappresentare la posta della lotta ingaggiatasi tra gli uomini e le donne e ciò li incoraggia a sostenere vigorosamente il loro ruolo: questa sera, non fanno più parte del gruppo, non appartengono più al mondo delle donne, non sono più delle loro madri; ma, contemporaneamente, non sono ancora uomini, non sono in nessun luogo, e per questo occupano l’enda ayiä [capanna di iniziazione costruita dagli stessi giovani]: luogo diverso, spazio transitorio, limite sacro tra un prima e un dopo per coloro che presto moriranno per poi rinascere. I fuochi languono, le voci tacciono, tutti si addormentano.»

Tratto da P. Clastres, Cronaca di una tribù: il mondo degli indiani guayaki, cacciatori nomadi del Paraguay, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 115 e 117.

Tuesday, October 31, 2006

Dove l'effetto serra è provocato dalle flatulenze. Ma dai!

Leggo su il Giornale di oggi che Riccardo Cascioli, esperto di prediche e previsioni ecologiste, ha messo mano al seguito del suo Le bugie degli ambientalisti, intitolato Le bugie degli ambientalisti 2.
A conferma ulteriore di quello che scrivevo ieri a proposito dell'insensatezza di tante ricerche ‘scientifiche’, Cascioli segnala, tra le altre, la seguente castroneria propinata dalla lobby ambientalista:
“Lanciare allarmi fa guadagnare. In Nuova Zelanda, dove l’effetto serra è causato soprattutto dalle flatulenze delle mucche, si finanziano studi e ricerche sulla digestione dei bovini. Hanno inventato persino un apparecchio che regola il flusso del cibo nello stomaco. E questo è solo un piccolo esempio”.

Monday, October 30, 2006

Pedofilia dei sacerdoti: le parole di Benedetto XVI

Per i cattolici, lo Spirito Santo guida l’elezione di un pontefice. E Benedetto XVI si rivela essere, immancabilmente, il Papa ‘giusto’ per affrontare le grandi questioni e le sfide di questi tempi amari. È il Papa 'giusto' anche per affrontare i problemi interni alla Chiesa, come dimostrano le parole da lui pronunciate sul tema della pedofilia dei sacerdoti (si veda oltre l’articolo di Andrea Tornielli su il Giornale di domenica 29 ottobre). Suggerisco di leggere anche il post di Orpheus sullo stesso argomento.
Il Papa: se il pedofilo è un sacerdote crimine più grave, di Andrea Tornielli

Gli abusi sessuali sui minori sono «enormi crimini», ancora «più tragici» se chi abusa è un uomo di Chiesa. Per questo occorre fare in modo di prevenire questi atti e sostenere le vittime. Lo ha detto ieri mattina Benedetto XVI, ricevendo i vescovi irlandesi presenti a Roma per la visita «ad limina». In Irlanda il fenomeno degli abusi su minori è presente in misura preoccupante e negli ultimi anni sono stati denunciati 450 casi nella sola diocesi di Dublino. Nel 2002, l'allora arcivescovo Desmond Connel, durante un'omelia, aveva chiesto scusa per i «fallimenti» della Chiesa nell'affrontare il fenomeno.
Ai vescovi irlandesi il Papa ha detto che nei casi di accuse di pedofilia che coinvolgono sacerdoti o religiosi è necessario «stabilire la verità di quanto accaduto, al fine di adottare qualsiasi misura sia necessaria per prevenire la possibilità che i fatti si ripetano, garantire che i principi di giustizia siano pienamente rispettati e, soprattutto, portare sostegno alle vittime e a tutti quanti siano colpiti da questi enormi crimini».
L'accenno alla «verità» è significativo: pur avendo voluto Ratzinger, ancora da cardinale, far fronte con regole più severe al fenomeno, giustizia vuole che sia accertata la responsabilità dell'accusato. Ma altrettanto significativo è l'accenno alla prevenzione per evitare che fatti simili si ripetano: ciò significa vigilanza, ma anche, nel caso di segnalazioni e denunce, fare in modo che il responsabile non sia più in grado di nuocere.
«Nell'esercizio del vostro ministero pastorale – ha ricordato Benedetto XVI – avete dovuto fare fronte negli anni recenti a molti e terribili casi di abusi sessuali su minori.
Questi sono ancora più tragici quando ad abusare è un uomo di Chiesa. Le ferite causate da tali atti agiscono in profondità ed è un'operazione urgente ricostruire la fiducia e la sicurezza là dove esse sono state danneggiate». Dopo aver elencato le sue raccomandazioni e le corrette modalità per affrontare efficacemente il problema, papa Ratzinger ha aggiunto: «Il pregevole lavoro e l'abnegazione della grande maggioranza dei sacerdoti e religiosi d'Irlanda – ha concluso il Papa – non devono essere oscurati dalle trasgressioni di alcuni dei loro fratelli.
Sono certo che la gente lo capisca e continui a guardare al suo clero con affetto e stima».
Come si ricorderà nel 2002 la Chiesa statunitense era stata travolta dallo scandalo dei preti coinvolti negli abusi ai minori. Alcune diocesi, chiamate a far fronte al risarcimento dei danni chiesti dalle vittime, sono sull'orlo della bancarotta. Già il 30 aprile 2001, con il «Motu proprio» Sacramentorum sanctitatis tutela, Giovanni Paolo II aveva stabilito di innalzare da 16 a 18 anni l'età del giovane perché il delitto fosse definito di «pedofilia».
Inoltre, il Papa prolungava a dieci anni il periodo necessario perché il delitto cada in prescrizione e questi dieci anni scattano non da quando è stato commesso l'abuso ma da quando la vittima ha compiuto il diciottesimo anno d'età. La nuova normativa, inoltre, prevede un vero, regolare processo per accertare i fatti, per confermare le prove della colpevolezza davanti ad un tribunale. E insiste anche sulle indagini previe che permettono di prendere dei provvedimenti cautelativi che impediscano all'individuo sospettato di recare ulteriori danni.

“Morte di un’anima” … e spreco di cervelli

Mentre leggevo quest’articolo, pubblicato su Il Foglio online, pensavo a quante braccia vengono sottratte all’agricoltura nei centri di ricerca.
Morte di un’anima
Al Salk Institute di La Jolla, in California, un gruppo di scienziati si affanna intorno ai neuroni del cervello per dimostrare che la coscienza è frutto dell’evoluzione e che pensare a noi come “persone” è un errore

Roma. Lo chiamano il “Decennio del Cervello”, metallico, pulito, pionieristico. Nel Maryland la scienza si è prodigata a individuare il gene dell’ansia, ma è fra le dune della California che celebra il suo progetto più ambizioso: la ricerca dell’anima, o laicamente, coscienza. Cosa ci spinge ad aiutare il prossimo? Esiste la libertà? E lo spirito religioso? E’ su queste domande che si apre un’inchiesta del settimanale americano U.S.News sulle recenti frontiere della biochimica e della neurologia.
Al Salk Institute di La Jolla, in cima a una collina, la bibbia si chiama “La ricerca scientifica dell’anima”. E’ il vangelo del premio Nobel Francis Crick, scopritore del Dna insieme a James Watson. Il nome dell’istituto deriva da Jonas Salk, che mise a punto il vaccino della polio. Plotino e Ivan Pavlov, Cartesio e William James si amalgamano in un orizzonte filosofico, genetico e biochimico al centro di un’industria mastodontica e degli sforzi di truppe di neurologi, psicologi cognitivi, specialisti dell’intelligenza artificiale e, a profumare la melassa scientista, di filosofi. E’ l’ultima frontiera del darwinismo applicato che vuole superare il dualismo cartesiano corpo-anima, che il filosofo Daniel Dennett ha bollato come un “tuffo nel mistero”. L’acclamato libro di Dennett (“Breaking the spell”), fa parte di un ventennale attacco neodarwinista all’idea di anima. Per Stephen Pinker “la supposta anima immateriale può essere dissezionata con un coltello, alterata dalla chimica ed estinta dalla mancanza di ossigeno”. L’inglese Steven Rose parla di “riduzionismo neurogenetico”, a cui risponde Steven Mithen, autore di “The Prehistory of the Mind”, per il quale la coscienza è “un prodotto dell’evoluzione”.
Secondo Francis Crick la coscienza è il risultato dell’oscillazione elettrica nei neuroni e la sua decifrazione certificherà la “morte dell’anima”. Crick non ha fatto in tempo (è morto nel 2004), ma di allievi ne ha molti a La Jolla. “La visione di noi come ‘persone’ è sbagliata quanto quella del sole che ruota intorno alla terra”, diceva Crick. Fra i premi Nobel affiliati all’istituto anche Renato Dulbecco. Il Neurosciences Institute, a pochi chilometri dal Salk, è stato fondato nel 1981 da un altro Nobel, l’immunologo Gerald Edelman. Il suo scopo è “portare la selezione di Darwin fra i neuroni”, dentro il suo avveniristico “monastero della mente”. L’istituto vive di sole donazioni. Fotosensori e cilindri metallici, ricerche sul “darwinismo neurale” e persino un’orchestra per studiare l’influenza musicale sui neuroni (Edelman è anche violinista). Arte e scienza “sono animati dallo stesso spirito”. Un ricercatore, Steve Jones, sostiene che la neurologia conferma che “la filosofia sta alla scienza come la pornografia sta al sesso”. Edelman è uno spregiudicato imprenditore scientifico. Nel 2004 si è scoperto che era da anni sul libro paga della Philip Morris. Il suo mausoleo scientifico vive nella clausura e i trentasette ricercatori hanno l’obbligo di mangiare in comune. Il presidente è solito riferire aneddoti sugli amici, da Andy Warhol al neurologo Oliver Sacks, autore del celebratissimo “Risvegli”. Un progetto che Richard Lewontin ritiene animato dallo spettro della “sociobiologia”, la teoria che Stephen Jay Gould paragonava al biologismo nazista. Nel 1991 il dottor LeVay, neuroscienziato al Salk Institute, ha esaminato i cervelli di 35 cadaveri: 19 omosessuali e 16 eterosessuali. Si concentrò su un gruppo di neuroni nella struttura dell’ipotalamo e vide che la regione era più grande negli eterosessuali. Conclusione: l’omosessualità è innata. Dopo aver pubblicato le ricerche su Science nel 1991, LeVay dovette occuparsi delle accuse di razzismo.
Gli scienziati di La Jolla studiano come percepiamo, immaginiamo, apprendiamo e ricordiamo. “E’ una visione artistica”, dice Edelman. La perla dell’istituto è un cilindro di nome Nomad, dotato di un milione di connessioni neuronali. Secondo Joseph Dial, direttore della Mind Science Foundation, si tratta di campi che “hanno applicazioni cliniche soprattutto quando si parla di coma, come in Terri Schiavo”. Madeleine Cosman del City College ritiene che la morte della ragazza della Florida sia il coronamento di questo darwinismo psichiatrico, “una dottrina che incoraggia la sopravvivenza degli adatti e l’estinzione dei deboli”. Un ricercatore del Salk, Christoph Koch, vuole creare un “coscienziometro”, un apparecchio che misuri lo stato di coscienza di nuovi nati e anziani dementi. “Il XX era il secolo della genetica molecolare, il XXI sarà quello della neuroscienza”, dice orgogliosa Martha Farah della Pennsylvania University. La concentrazione e la memoria hanno trovato i loro farmaci, Ritalin e Aricept. “Un giorno ne avremo uno per il comportamento morale?”. La domanda affascina i cervelloni del monastero. Nel 1996 Francis Crick gettò le basi del programma: “Il vostro senso di personalità e della volontà libera altro non è che il comportamento di un vasto agglomerato di cellule nervose”. Daniel Wegner definisce la libertà un “sentimento cognitivo” e Han Brunner su queste basi studia il cervello dei criminali. Avrebbe scoperto che hanno sofferto nell’infanzia di un tasso basso di serotonina. Il Progetto Genoma Umano ha sponsorizzato la conferenza “Fattori genetici nel crimine”. La ricerca ha applicazioni religiose. Andrew Newberg, fondatore della cosiddetta “neuroteologia”, ha compiuto studi sull’attività cerebrale di suore e monaci buddisti. A La Jolla sarebbe nata “la prima teoria biologica della coscienza”. Il filosofo John Searle ha definito il lavoro di Edelman “il più profondo al mondo”. Secondo il New York Times, “questa visione implica che non c’è alcuna anima né io. Questa, per il Dr. Edelman, è l’ultima responsabilità di Darwin”.

(28/10/2006)

Aggiornamento. Riporto da il Foglio del 1 novembre, sezione Lettere al Direttore.

Al direttore - La scienza spiega il mondo, la coscienza lo giudica. L’anima è il principio organizzato in cui è collocata l’identità e la soggettività dell’essere umano. Il grande pericolo di oggi si trova nel riduzionismo scientifico. Siamo tentati dal ridescrivere i nostri attributi specifici – personalità, libertà e amore – come semplici fenomeni biologici. Così creiamo l’immagine di un nuovo essere umano, un animale umano senz’anima. E avendolo creato, lo imitiamo, denunciando coloro che non adorano questo dio creato dall’uomo.
Roger Scruton

Il direttore - Preziosa integrazione alla storia di come i laboratori di La Jolla, California, perseguono l’eutanasia della coscienza e forse anche dell’anima, raccontata sabato da Giulio Meotti. Grazie.

Thursday, October 26, 2006

Padri e madri, uomini e donne: due specie diverse

Non sono un grande fan di Sigmund Freud, ma condivido gran parte delle tesi sostenute da un suo epigono, Aldo Naouri, pediatra e psicanalista, di cui ho appena finito di leggere “Padri e Madri”, pubblicato da Einaudi.
Occorre sottolineare che le conclusioni dell’autore - basate su quarant’anni di osservazioni dirette, studi e casi clinici - non sono nuove al patrimonio della psicanalisi e dell’antropologia. Anche se così, si tratta tuttavia di un’interpretazione del ruolo paterno e materno che, in quanto decisamente controcorrente e politically uncorrect, fa fatica a trovare il suo giusto risalto tra il grande pubblico e tra gli stessi specialisti.
Avevo pensato di scrivere qualcosa sul saggio. Avantieri, ho fatto un generico tentativo, che si aggiungeva ad altri post sulla stessa tematica e con argomentazioni similari. Poi, navigando nella rete, mi sono imbattuto in un paio di articoli comparsi su La Stampa nel marzo 2005, quando il libro è stato pubblicato in Italia. Il primo articolo fornisce un’idea attendibile e imparziale dei contenuti del libro; il secondo, a firma dello stesso Naouri, contiene delle precisazioni al suo pensiero. Perché allora non approfittarne e risparmiarmi la fatica?
Faccio notare che il grassetto nel primo articolo è mio. Purtroppo, non sono riuscito a stabilire se l’articolo di Naouri è stato troncato. Lo riporto quindi così come l’ho trovato in rete.
A chi avrà la pazienza di arrivare alla fine del post, spero possa anche sorgere la curiosità di leggere il libro. Ne vale senz'altro la pena!
«Uomini e donne, due specie diverse», di Raffaella Silipo (La Stampa 7 Marzo 2005)

FATE come volete, tanto non andrà mai bene». Persino lui, Sigmund Freud, non aveva poi troppa fiducia nella possibilità di diventare un buon genitore. E Aldo Naouri, pediatra e psicologo assai noto in Francia e autore di molti libri sul tema dell’infanzia, sa bene che non esiste una formula per rendere felice ogni famiglia. A dispetto del titolo, il suo I padri e le madri (Einaudi) non è affatto un manuale di puericultura: è piuttosto uno spietato ritratto della società moderna, asservita allo «strapotere della madre» e insieme un’invocazione agli uomini perchè riprendano il loro ruolo: non quello di «mammi», che troppo spesso cercano di assumere, ma quello di maschi e di padri. Nella convinzione non solo che stiamo allevando una generazione di figli gravemente disturbata, ma che questo sbilanciamento di ruoli sia alla radice di conflitti profondi tra culture, primo fra tutte tra Occidente e Islam.
Non stupisce insomma che il libro, alla sua uscita, abbia fatto assai discutere in Francia scatenando polemiche a non finire. La tesi di base - argomentata in un lungo excursus storico e antropologico - è radicale: gli uomini e le donne sono proprio due specie diverse, «profondamente estranee l’una all’altra». A dividerle alla radice sarebbe la diversa percezione del Tempo e della Morte: ineluttabile e fonte di profonda angoscia per l’uomo, combattuta con viscerale testardaggine dalla donna, grazie alla straordinaria risorsa della gravidanza, che le dà una sensazione di controllo sulla vita e sulla morte. Secondo Naouri siamo a una tappa decisiva di questo scontro «così lungo e così duro, che da tempi immemorabili oppone uomini e donne». Questa tappa attesta la vittoria del modello femminile, almeno nella società Occidentale: è la donna a esercitare il dominio sui figli, ma non solo. È il modello «materno» a vincere, inteso come modello volto alla negazione del tempo, alla soddisfazione immediata dei bisogni, alla seduttività, alla «campagna elettorale permanente» dei genitori nei confronti dei figli, dei governanti nei confronti delle popolazioni, delle imprese nei confronti dei consumatori. C’è secondo Naouri una «carenza di dimensione adulta nella nostra società» che privilegia l’istante e l’effimero (qui Naouri usa un gioco di parole impossibile da rendere in italiano. In francese la parola «éphémère» - effimero - risulta omofona alla parola «effet mère» - effetto madre), a scapito della durata e del lungo termine, della normatività del principio maschile.
La donna offre piacere, certezza, sollievo dall’angoscia di morte, l’uomo offre dubbi e regole. Ci vogliono entrambi, dice Naouri, perchè la specie umana sopravviva, ma oggi c’è solo un polo, anche perchè gli uomini cercano in tutti i modi di uniformarsi al modello femminile, che percepiscono come vincente, trasformandosi in «mammi» seduttivi verso la prole, provvisti di biberon e pannolini, moltiplicando così l’effetto materno.
«Le madri sono potentissime - spiega Naouri - eppure la malattia più grave che possa colpire un essere umano è di essere straboccante di una madre del genere». La tendenza materna infatti è controllare il figlio, farlo sentire al centro di ogni interesse, mantenerlo dipendente: «Se stai attaccato a me hai la vita, se ti stacchi c’è la morte» è il messaggio delle madri di sempre, quelle preistoriche e quelle moderne e in carriera. «Ricolmo di attenzioni e premure, il bambino cresce ignaro dello scorrere del tempo e dipendente dal piacere - spiega Naouri - sarà sempre tentato di prendere la strada più facile, di approfittare di ogni occasione, mancherà di ambizione e di dinamismo».
Non solo, continua Naouri, avventurandosi in un’analisi dello scontro tra civiltà: questo modello materno-consumistico-Occidentale, straordinariamente seducente, travalica i confini della nostra società sconvolgendo, per esempio, il mondo arabo-musulmano. «In che modo gli uomini musulmani potrebbero accettare scelte che mettono in discussione il loro stato di “abou”, di padri proprietari dei propri figli? Attaccati alla netta gerarchia da sempre vigente tanto nei rapporti tra genitori che in quelli tra sessi, vivono questa esportazione, sottilmente persuasiva, come un vero e proprio tipo di conversione... Hanno nutrito il loro rancore, coordinato le loro forze e reclutato un numero sufficiente di fanatici kamikaze per lanciarsi in una nuova crociata».

Cosa può fare di fronte a questa radicalizzazione l’uomo «disorientato, furente, smarrito? Ognuno inventa la sua soluzione, a fronte di una compagna diventata detestabile e spaventosa». Secondo Naouri è inutile combattere le donne sul loro terreno. «Non combatto lo strapotere delle madri, al contrario lo celebro. Non esiste infatti una simmetria nei rapporti di padre e madre con il bambino. Come si può mettere su uno stesso piano un’esperienza così significativa qual è quella vissuta dalla madre e dal bambino durante la gravidanza e quella che vive l’uomo, anche se il desiderio di mettere al mondo un bambino ha fatto parte integrante del suo amore per una donna?» La comunicazione tra padre e bambino, secondo lui, passa sempre necessariamente attraverso la madre. Al padre resta una sola possibilità: «Deve riprendere il suo ruolo, non quello delle sit-com e dei luoghi comuni. Deve essere, invece, un individuo che si interpone fra la madre e il bambino», che porta il figlio fuori dall’abbraccio protettivo, gli mostra la realtà, il tempo, la morte alla fine del cammino.
Il compito, va detto, è ingrato. Come convincere un bambino, ma anche un adulto, ad abbandonare il principio di piacere? Secondo Naouri, avere successo con il bambino è impensabile. L’unica possibilita è che l’uomo riesca a distogliere almeno un poco l’attenzione della donna nei confronti del figlio: che il bambino «scorga da sopra la spalla della mamma, un uomo. E che quest’uomo interessi terribilmente a sua madre». In questo modo il bambino imparerà, fin dai primi mesi di vita, la frustrazione. Sperimenterà, insieme alla sazietà e al piacere, anche il bisogno e il desiderio: «Così non avremo più gli odierni bambini-tiranno o abominevoli adolescenti che non hanno risolto fin dall'infanzia un problema, quello che si possono vivere momenti senza piacere e non per questo si muore».
Combattere l’amore con l’amore, è la ricetta di Naouri: l’amore viscerale che lega madre e figlio a quello altrettanto viscerale che lega e oppone uomo e donna: «Mi è successo di stilare più di una ricetta in cui l'indicazione era “Fate l'amore. Siate una coppia, sarete dei genitori migliori”». D’altronde ci vuole pure un incentivo, ad abbandonare (educare, ci ricorda Naouri, vuol dire letteralmente «condurre fuori da») l’utero materno, se è vero che «tutti siamo andati a ritroso nella vita, tenendo gli occhi puntati sul nostro luogo d’origine e provando paura a voltargli la schiena, come ci inciterebbe a fare nostro padre, tanto ci fa orrore quello che vedremmo al termine del cammino, se guardassimo dritto davanti a noi».


Uomini e donne, due specie diverse, di Aldo Naouri (La Stampa 7 Marzo 2005)

STAREI forse affermando che l’essere femminile è un individuo umanamente differente dall’essere maschile, con un’organizzazione psichica fino a questo punto, e così profondamente, diversa? Ma come sostenere ciò che, formulato in questi termini, può sembrare un’aberrazione, con il rischio di lasciar intendere che gli uomini e le donne appartengono a due specie diverse? A meno che si tratti solo, dopo tutto, delle conseguenze, insospettabili, e quanto spesso negate, di una diversità fra i sessi la cui misura non è mai stata presa in considerazione e che farebbe degli uomini e delle donne due specie nettamente differenziate ? Perché no?
Non stento a immaginare quali veementi reazioni possa suscitare il mio discorso, e già mi vedo accusato di negare alle donne la capacità o la possibilità di condurre un’impresa o fare carriere che gli uomini hanno sempre considerato di loro esclusiva competenza. Non soltanto respingo in anticipo una tale imputazione, ma tengo a precisare il mio pensiero aggiungendo che, anche le donne con un potenziale che niente può, né deve, limitare in nessun modo, anche queste donne, come tutte le altre, sebbene in grado di sentire, concepire e gestire il tempo, di controllarlo e di servirsene senza il minimo problema apparente, conservano e conserveranno sempre nei suoi confronti, qualunque cosa facciano o faranno, un vissuto specifico e una relazione totalmente diversa da quella degli uomini.
Il rapporto con l’angoscia di morte, a mio avviso, ne è una testimonianza. Sono convinto che le donne ne siano infinitamente meno oppresse degli uomini. Attenzione! Non sto dicendo che ne siano completamente prive. Penso solo che non ne siano sopraffatte nella stessa misura. La pressione di questa angoscia, cioè, in loro è senz’altro relativamente bassa, meno soggetta a variazioni e soprattutto infinitamente meno soggetta ad ampie variazioni. Infatti, le donne, dato che la sottospecie cui appartengono lo vive da decine di milioni di anni, sanno ciò che gli uomini non sanno e che non possono sapere del loro specifico modo di porsi in rapporto al tempo. Sanno anche, nella maniera più profondamente intima e meno comunicabile che ci sia, che la loro vita non finisce con la morte fisica, ma che continua nei figli portati nel proprio corpo, messi al mondo attraverso questo stesso corpo e a cui ne hanno dato un altro, che di loro recherà sempre una traccia incancellabile. Sanno di non essere mai state né autarchiche né sole né isolate. Sanno che la loro saggezza intrinseca le ha indotte a non investire solo su se stesse, ma a dedicare anche agli altri le proprie energie...
Questa mamma è una madre umana, una madre umana abbandonata alla gioia inesauribile che le assicurano la certezza della sua funzione e il suo statuto in una società che ha adottato, senza limiti e senza contropoteri, tutti i valori di cui sarebbe portatrice. E’ una madre umana in quanto il suo comportamento si iscrive nella sorda lotta che oppone i due sessi dai tempi più remoti, la sorda lotta, ad armi diverse e impari, che le donne combattono da sempre contro l’uomo, quell’uomo che le ha forzate con la Legge della specie, della quale esse non hanno accettato né i termini, né le disposizioni che avrebbero dovuto portarle ad ammettere l’ineluttabilità della morte, quell’uomo che continua a reprimerle tanto, e di cui esse così spesso si dolgono di non poter fare a meno per accedere a quella condizione di madre che le ha rese, da sempre, tanto potenti...

Wednesday, October 25, 2006

Legge finanziaria: l’esperienza e il buon senso di Prodi

L’esperienza e il buon senso insegnano che, per ovvi motivi, qualunque decisione coinvolgente altre persone non accontenterà mai tutti. E se il plauso fosse unanime, colui che ha deciso dovrebbe insospettirsi.
Il Professore invece ha dichiarato (cito a memoria): “una legge finanziaria per essere buona deve scontentare tutti. Quella del mio governo lo sta facendo, per cui va bene così.”
Un uomo, una volpe!

Tuesday, October 24, 2006

Woody Allen e la grande madre

Woody Allen disse una volta “Vorrei tanto rientrare nell’utero… di chiunque”. Mi è venuta in mente questa frase mentre commentavo un interessante post di Abr. Parlando di responsabilità individuale, qualcosa di cui oggi c’è grande penuria, accennavo al fatto che essa dovrebbe essere insegnata dai padri. Sono loro che ‘educano’ i figli a questo riguardo, al punto da poter dire che si tratta di una delle principali funzioni della paternità.
Ho messo tra virgolette il verbo educare perché questa attività non viene generalmente intesa nel suo significato più profondo, diciamo pure psicologico e antropologico. Qual è infatti l’etimologia di questa parola? Deriva dal latino ex-ducere, cioè ‘condurre fuori’. Va bene, condurre fuori, ma … condurre fuori da chi o da cosa?
Di primo acchito, si potrebbe pensare che il protagonista di questo arduo compito si proponga di condurre l’interessato fuori dalla sua ignoranza, ovvero dal suo non sapere. È certamente così, ma vi è un senso meno generale da attribuire al concetto, un senso che va ricondotto alla funzione propria di chi opera per la crescita dei giovani.
Una parte importante della disciplina che studia la psiche, sia di matrice freudiana che junghiana, ci informa che la funzione principe di un padre è quella di condurre i figli fuori … dall’utero (virtuale) della madre. Per dirla in termini più espliciti, un padre ha il compito di aiutare i figli a separarsi dal mondo dell’appagamento dei bisogni, quindi del nutrimento, che è proprio della madre, per farlo entrare nel mondo degli adulti, in cui vi è la presa di coscienza dello scorrere del tempo, della ineluttabilità della morte e quindi della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Va evidenziato che tale ruolo paterno non ha possibilità di successo alcuno se il padre agisce da solo nell’impresa. Occorre infatti la collaborazione della madre, la quale ha il compito di aiutare i figli a separarsi da lei per andare dal padre.
Torniamo allora da dove eravamo partiti, cioè dalla frase di Woody Allen, per dire che, nella prospettiva indicata, l’attore americano ha centrato, forse inconsapevolmente, il cuore del problema di cui soffrono un po’ tutti, maschi e femmine, di questo nostro Occidente, problema che si sostanzia nel fatto che non si riesce più ad uscire dall'utero materno. La battuta di Allen voleva semplicemente parlare di sesso, ma ha rilevato qualcosa di molto più interessante.

Monday, October 23, 2006

Caso Santanchè: ma la fatwa non costituisce da noi reato penale?

Alla sacrosanta libertà di Daniela Santanchè di esprimere il proprio pensiero sul velo delle donne musulmane - «il velo non è un simbolo religioso, non è prescritto dal Corano» - corrisponde l’identica libertà dell’imam di Segrate di risponderle: «Io sono un imam e non permetto a degli ignoranti di parlare di islam. Voi siete degli ignoranti di islam e non avete il diritto di interpretare il Corano».
Poi però, come informa Giordano Bruno Guerri su Il Giornale, “l’uomo ha proseguito, fuori onda: «Il velo è un obbligo di Dio. Quelle che non credono in questo non sono musulmane». Di conseguenza le musulmane colpevoli di non portare il velo (anche in Italia) sarebbero delle miscredenti e delle apostate: un’accusa che si può trasformare nella condanna a morte”.
Mi domando se il comportamento dell’imam della moschea di Segrate non configuri un fatto penalmente perseguibile. Il lancio di una fatwa non si sostanzia necessariamente in una condanna a morte, è vero, ma l’esperienza insegna che può tradursi in questo se il messaggio viene raccolto da qualche esagitato (il caso Theo Van Gogh docet).
Dalla prospettiva del nostro ordinamento giuridico, si può quindi configurare il reato di incitamento all’omicidio. A mio avviso, della questione dovrebbe occuparsi la magistratura. Confesso di nutrire poche speranze in proposito, ma sarebbe finalmente una risposta, chiara e forte, alla tracotanza di questi imam.

Thursday, October 19, 2006

Sul velo delle donne musulmane l’Europa getta il bimbo con l’acqua sporca

Gianni Baget Bozzo scrive oggi su il Giornale che «(in Francia) per obbligare i musulmani a rinunziare alla manifestazione pubblica nelle scuole della loro identità si sono aboliti i segni cristiani. Per questo la via francese mi sembra pericolosa. Il laicismo occidentale, nella sua fondamentale a-religiosità, e nel culto dell’uguaglianza dei diritti, imporrebbe, come nel caso francese, anche l’abolizione dei segni cristiani.
(…) Con i tempi che corrono, come cristiano preferisco vedere lo chador che vedere limitate le croci. Preferisco vedere le identità religiose piuttosto che vederle nascoste. Lo Stato, però, deve preoccuparsi del contrasto che esiste con il mondo islamico su temi più sensibili, come la poligamia, la condizione della donna, l’educazione dei figli. Abbiamo di fronte una religione che è una civiltà, differente dal cristianesimo e ancor più dall’Occidente secolarizzato. Il vero pericolo è che il laicismo occidentale si unisca al fondamentalismo islamico in funzione anti-cristiana. Vi sono molti segni di questo.»

Sunday, October 08, 2006

Montanelli e il braccio fratturato di mia moglie

Indro Montanelli diceva che, di tutti i difetti dell’Italiano, quello più grave consiste nell'essere privo di un ‘poliziotto interiore’, che lo indurrebbe a rispettare le leggi anche quando nessuno controlla.

La settimana scorsa mia moglie è caduta in palestra. La sala era piena di gente, faceva un gran caldo e il pavimento gommato era diventato scivoloso per il troppo sudore. L’istruttrice avrebbe dovuto interrompere gli esercizi per far asciugare il pavimento o, almeno, evitare di suggerire movimenti che chiamavano in causa l’equilibrio. Da parte sua, mia moglie avrebbe dovuto prestar più attenzione a quel che faceva, dopo che già tre persone erano finite gambe all’aria. Ad ogni modo, la quarta vittima è stata lei. Diversamente dalle altre, che si sono aggiudicate una semplice contusione al posteriore, mia moglie ha deciso di fare le cose in grande: frattura del capitello del radio e quindici giorni di gesso.
Allora? In questi casi, come è noto, si può invocare la responsabilità oggettiva e avanzare una richiesta di risarcimento danni alla palestra. Bé, mia moglie ed io abbiamo deciso di soprassedere: questione di stile (o dabbenaggine). Fatto sta che, il giorno dopo, il proprietario della palestra ha telefonato a mia moglie e le ha chiesto di incontrarla. Mia moglie, subodorando i timori dell’interlocutore, ha pensato di tranquillizzarlo dicendo che l’incidente per lei era chiuso. Il tipo ha insistito dicendo che aveva da farle una proposta su quanto accaduto. Con tanto di braccio ingessato, mia moglie si è così recata all’appuntamento davanti alla palestra.
“Guardi, ho parlato col mio avvocato e mi ha detto che, se lei vuole, posso fare da testimone affinché lei ricavi un po’ di soldi da questa faccenda”, dice lui.
“Ricavare soldi da chi?”, fa mia moglie che, ovviamente, non capiva.
Risposta: “Guardi lì, vicino alla porta d’ingresso della palestra. Mancano un paio di mattonelle al marciapiede. Bene, lei presenta una denuncia contro il Comune perché è inciampata e si è fratturata il braccio. Io le faccio da testimone. Cosa ne pensa?”.
Mia moglie ha rifiutato l’offerta e Montanelli, da lassù, ha avuto un’ennesima conferma di quel che pensava sugli Italiani.

Friday, October 06, 2006

Diritto di adozione per le coppie gay, sì o no?

Nello scambio di opinioni tra Nullo e il sottoscritto, si è arrivati ad un punto chiave. Il mio amico, a commento del post ‘Ciò che rispetto dell’Islam’, pone questo interrogativo: “Che cosa non va nelle famiglie a due madri o due padri?”.
La domanda è centrale a tutta la questione che stiamo dibattendo - identità e crisi dell’Occidente – e tocca un problema che, almeno a mio avviso, costituisce uno dei sintomi della crisi in cui versa la nostra società.
Ecco la mia risposta.

Per crescere in modo equilibrato, un bambino ha bisogno di una figura genitoriale maschile e di una femminile. Ciascuna figura comunica, per sua natura, qualcosa di unico e inimitabile. Non ci si può stancare di dire che entrambe le figure sono indispensabili allo sviluppo della personalità di un bambino.
In un gay la coscienza della propria identità, maschile o femminile, è confusa. Egli/ella non è né compiutamente uomo, né compiutamente donna. Per questo motivo, adottando un bambino, i gay non possono compiutamente trasmettergli né la figura paterna, né la figura materna. Quindi, se i ‘genitori’ hanno lo stesso sesso, essi comunicheranno al bambino solo confusione di identità e di ruoli. Il piccolo, cioè, non imparerà che cos’è il maschile e che cos’è il femminile proprio perché i suoi ‘genitori’ non lo sanno neppure loro. La personalità del bambino adottato si svilupperà in modo altrettanto confuso di quella dei suoi genitori, con danni rilevanti dal punto di vista psicologico.
Non mi sembra necessario scomodare Dio per riconoscere che l’ordine naturale è giusto così com’è. Sono gli uomini ad essere tentati di modificarlo (anche questo è delirio di onnipotenza, come scrivo nel post). Se vogliono opporsi alla natura e modificarne le leggi, gli uomini hanno piena libertà di farlo. Peccato però che a pagarne le conseguenze saranno, oltre che gli adulti, anche e soprattutto i bambini.

Tuesday, October 03, 2006

Ciò che rispetto dell’Islam

Dico in questo post qualcosa che ho già scritto in altre occasioni e senza alcuna pretesa di ricevere consensi. Prima di tutto, però, reputo necessarie alcune precisazioni, onde evitare equivoci.
Qui si sta dalla parte dell’Occidente, sottoposto all’aggressione omicida e liberticida dell’Islam. Qui si è per una lotta senza quartiere al fanatismo e al terrorismo islamico. Anche qui c’è rabbia verso coloro che stanno svendendo l’Europa ai musulmani, così come c’è orgoglio di essere figlio della civiltà giudaico-cristiana. Qui si sta con gli Stati Uniti che, ancora una volta, hanno preso le redini della lotta contro i nemici dell’Occidente. Si sta con Israele e con i suoi civili che muoiono per mano e con la connivenza di chi nega il loro diritto ad esistere. In ultimo, ma più importante di tutto, qui si sta con il Papa e con la Chiesa cattolica, che indicano dov'è la Via, la Verità e la Vita.

Fatta questa sorta di carta dei ‘valori’, devo anche dire però che non basta che la grande civiltà a cui appartengo produca un enorme benessere materiale, sviluppi tecnologie sempre più sofisticate e assicuri libertà di manifestazione del pensiero. Non basta, cioè, per farne una società integra.
Quello che io vedo dell’Occidente di oggi è una società in preda al delirio di onnipotenza, una società che non ascolta più la voce degli anziani, una società che ha cancellato l’idea stessa della morte, una società di figli senza padri.
Che società è quella dove l’industria della comunicazione sforna reclame come quella della Campari Red Passion? Cos’è e dove va una società che arriva a concedere agli omosessuali non solo il matrimonio, ma persino l’adozione di bambini? Se in Olanda è legale costituire un partito dei pedofili, cosa possiamo desumere del concetto occidentale di libertà?

Dico adesso qualcosa che probabilmente farà saltare sulla sedia due amici, Abr e Nullo, con i quali mi confronto sull’identità occidentale e sulla questione islamica.
Lo devo riconoscere, sento talvolta di comprendere la ‘lingua’ dei musulmani. Non certo quella della morte e del disprezzo altrui, non quella dei terroristi o di quelli che trattano le donne, le mogli e le figlie come schiave e esseri inferiori.
Comprendo invece i musulmani quando si inchinano di fronte all’autorità dei padri e degli anziani. Comprendo i musulmani che si considerano fratelli nella fede e non ammettono insulti alla loro identità religiosa e culturale. E comprendo le donne musulmane che si fanno terra sacra in cui affondano le radici dei 'guerrieri'. Solo a questo riguardo, e non è poco, i musulmani ricevono il mio rispetto.

Monday, October 02, 2006

Pillole 11

Siamo tutti uguali di fronte a Dio, ma l’uguaglianza diventa un gioco al ribasso quando è promossa da chi conosce solo la mediocrità.

Tuesday, September 26, 2006

Quando il figlio di Martin Bormann spiegò come diventare adulti

Cosa avrebbe dovuto fare il figlio di Martin Bormann? Disconoscere il padre per quello che aveva fatto? Disse invece: “Era mio padre e lo ringrazierò sempre per avermi dato la vita. Ciò che ha fatto appartiene solo a lui, non a me”.

Monday, September 25, 2006

Occidente: società patriarcale o matriarcale?

Per individuare qualche punto fermo sulla questione, propongo l’osservazione diretta. Non occorre andare lontani e fare chissà cosa. È sufficiente osservare le nostre famiglie d’origine, quelle dei nostri parenti amici e conoscenti. Dopodichè la domanda:
chi ha la vera autorità? chi prende le decisioni ultime, soprattutto quelle sui figli? Il padre o la madre?

Osama, su una cosa l’Occidente dovrebbe dirti grazie

Rubato ad un amico: Vivo o morto, ad Osama Bin Laden va riconosciuto il merito di aver unito gli Occidentali. Com’era prevedibile, però, ci si è ridivisi prontamente, una volta superato il momento dell’emozione.

Friday, September 22, 2006

E anche tu Prodi, basta a prenderci per i fondelli

Dal Corriere online
Notizia delle 17,43

ROMA - ''La domanda che mi e' stata fatta era: Ali Acga ha detto che il Papa correrebbe rischi in Turchia. Io ho risposto che, a parte la fonte, la questione è compito della polizia turca. È la risposta più onesta e seria che si potesse dare". Lo ha dichiarato il presidente del consiglio Romano Prodi, tornato sulle polemiche nate dalla sua risposta a una domanda sulla sicurezza del Papa in Turchia. "Mi dispiace moltissimo che si sia speculato su questo, non si può continuare così. Si gioca anche su cose su cui non si può giocare", ha detto Prodi alla festa dell'Italia dei Valori a Vasto.

Mi sbaglio, o aveva detto: «Alla sicurezza del Papa ci penseranno le sue guardie. Cosa volete che vi dica...»?. Comunque, Prodi ha ragione: non si può continuare così. Si ‘mente’ anche su cose su cui non si può ‘mentire’.

Ahmadinejad, e basta a prenderci per i fondelli!

Ahmadinejad ha ribadito ieri all’ONU che l’Iran intende acquisire il nucleare esclusivamente per scopi civili.
Ora, per quel che ne so, gli scopi civili del nucleare si sostanziano nella produzione di energia elettrica.
Vorrei allora che il presidente iraniano spiegasse che se ne fa del nucleare un paese che galleggia sul petrolio e può quindi produrre tutta l’energia elettrica di cui ha bisogno. Mah!

Monday, September 18, 2006

«Ma siamo solo noi musulmani a insultare sempre la Croce»

di Marcello Foa (Il Giornale, 18/09/2006)

È una voce. Una sola, ma coraggiosa. Non risuona nelle moschee, ma si esprime sulle pagine on line di Elaph, uno dei giornali panarabi più letti su Internet. La redazione è a Londra, l’orientamento modernista e liberale. Basta un clic per accorgersene: sulla colonna di sinistra appaiono foto di giornaliste e cantanti arabe vestite e in pose inequivocabilmente occidentali. Ieri il direttore Othman Al-Omeir ha deciso di rompere il coro di critiche al papa - che in questi giorni ha unito moderati e fondamentalisti musulmani - pubblicando un commento in cui si ribalta la prospettiva.
«Sì il Papa avrà pure sbagliato, però ha presentato subito qualcosa di molto simile a delle scuse dicendo che le sue parole sono state fraintese - si legge nel testo, rilanciato in Italia dall’agenzia Apcom -. Ma quanti sono i nostri Muftì Ulema islamici che si sono espressi per spiegare che è contrario alla spirito dell’Islam offendere i cristiani ogni venerdì nei sermoni delle nostre moschee?», si chiede Hani al Nakshabandih, che giudica «strumentale» la protesta, perché «le parole di Benedetto XVI non possono in alcun modo minacciare l’Islam, né intaccare la figura del Profeta». Tanto più che la Santa Sede da tempo dimostra grande cautela e rispetto nel porsi verso le altre religioni. E Benedetto XVI non ha certo rinnegato la linea del dialogo.
Si può dire altrettanto dei religiosi musulmani? No, secondo l’editorialista di Elaph, che, con notevole audacia, elenca i torti «quotidiani» commessi dall’Islam, nei confronti delle altre religioni: «Noi commettiamo errori mille volte più del Papa - scrive - Nei sermoni del venerdì insultiamo cristiani ed ebrei, chiedendo a Dio di distruggerli». E ancora: «In ogni scuola, inculchiamo ai nostri alunni che i cristiani sono impuri ed andranno all’inferno. In ogni casa cresciamo i nostri figli insegnando che cristiani ed ebrei sono i nostri principali nemici e che dovremo ucciderli altrimenti loro ammazzeranno noi». «Ma i nostri Ulema tacciono, salvo poi scattare all’unisono quando il Pontefice parla della persona del Profeta». È un’ipocrisia, inaccettabile per Hani al Nakshabandih. «I dotti dell’Islam rispondono all’errore con un altro errore: offendere Maometto, non è più grave dell’insulto ai cristiani».
L’accusa è durissima e difficilmente passerà inosservata. Nell’impeto polemico, il giornalista lascia intendere che in tutte le moschee si propaghi l’odio. Non è così. Dimentica di ricordare che la diffusione del fondamentalismo islamico non preoccupa solo noi occidentali, ma anche, se non soprattutto, i Paesi arabi, che, per arginare il contagio, impongono controlli serrati nei luoghi di culto. L’Università del Cairo di Al Ahram, considerata il «Vaticano» dei sunniti, non è certo una congrega di estremisti. E i riti delle congregazioni Sufi sono un inno alla spiritualità, non certo al radicalismo. Nonostante tutto l’Islam continua ad avere più volti.
Ma l’editorialista di Elaph non sbaglia nel denunciarne l’aspetto più aberrante e retrogrado: quello del wahabismo ovvero una setta della penisola arabica fondata nel 1700 e che ha avuto a lungo un’influenza marginale, ma che grazie ai generosi finanziamenti degli sceicchi sauditi fa proseliti nel mondo.
Qualche mese fa la Freedom House, uno dei più prestigiosi istituti di ricerca americani, ha monitorato i sermoni dei clerici wahabiti sia in Arabia Saudita sia in Occidente. C’è da rabbrividire.
Altro che dialogo, altro che comprensione. Quegli imam diffondono un credo totalitario intriso di violenza, che trova eco persino in alcuni documenti ufficiali del governo di Riad. Si sostiene che è un obbligo religioso per ogni musulmano odiare cristiani ed ebrei e che non bisogna imitarli, né fraternizzare con loro né aiutarli in alcun modo.
Guai a salutarli per primi, guai a porgere gli auguri a Natale. La democrazia è anti-islamica e dunque va respinta. I «Fratelli» che si trovano nelle terre dei miscredenti devono comportarsi come se fossero in missione dietro le linee nemiche, acquisendo nuove conoscenze e fondi da usare per la Guerra Santa o facendo proselitismo. Qualunque altra ragione non è ammessa. E chi osa convertirsi sappia che verrà ucciso. Così si parla nelle moschee e nelle scuole coraniche wahabite. Il problema è innanzitutto lì.

Chiedi scusa, Islam

Perché i governanti dell’Occidente non pretendono le scuse dei governi e dei leader religiosi musulmani per quello che hanno fatto e fanno i terroristi islamici?
Chiedete scusa, cospargetevi il capo di cenere, allungate il mese di Ramadan a dieci anni consecutivi per i morti di New York, Madrid e Londra! Chiedete scusa alla Chiesa e chiedete scusa per Andrea Santoro, per Suor Leonella e per tutti quei religiosi che erano lì da voi a testimoniare che la fede in Dio non si impone con la forza! Chiedete scusa al Pontefice perché lo avete accusato di aver detto cose che non ha mai pronunciato e per aver travisato il senso di quello che ha veramente detto! Chiedete scusa perché sputate nella mano di chi vi accoglie nel suo Paese e dà un futuro a voi e ai vostri figli, di chi vi costruisce le moschee in casa sua affinché possiate professare liberamente la vostra fede! Chiedete scusa perché non consentite ai cristiani di costruire chiese e di professare liberamente la propria fede in casa vostra!

Non è tutta colpa dei musulmani se accade quel che accade. Come dice Ida Magli, «i governanti, i leader occidentali debbono convincersi che il mondo musulmano sa di avere già vinto, ed è per questo che reagisce al livello del Capo della Chiesa. Come si può pensare che così fedeli al loro credo, i musulmani nutrano della stima verso coloro che, pur di instaurare il famoso “dialogo”, hanno rinunciato a difendere ciò che di più prezioso possiedono: Gesù […] L’Occidente riprenda contatto con la realtà. Il mondo non diventa perfetto quando i governanti decidono che lo deve diventare. Bisogna reagire con forza, che si sia credenti oppure no, perché qui è in gioco la nostra libertà territoriale e politica. L’umiliazione inflitta oggi al Capo della Chiesa è l’ultimo avviso per l’Occidente: o la smette subito di voler sembrare stupidamente “buono” oppure presto dovrà o diventare musulmano o difendersi con le armi».
Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia.