Friday, March 30, 2007

L'Inferno. Una realtà sgradevole e misteriosa

Segnalo l’articolo di Vittorio Messori, pubblicato sul Corriere della Sera del 26 marzo scorso, dal titolo “Una realtà sgradevole e misteriosa. Ma necessaria alla libertà dell’uomo“.

«Eminenza, perchè i preti nelle loro infinite omelie (più di 25.000 ogni domenica nella sola Italia) non parlano più dell’aldilà e, soprattutto, rifuggono dal pronunciare una parola che è divenuta tabù: inferno?». Alla domanda, l’allora Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, Joseph cardinal Ratzinger, mi guardò un po’ ironico: «Il fatto è che oggi tutti, anche nel clero, ci crediamo talmente buoni da non poter meritare altro che il paradiso. Siamo impregnati di una cultura che, a forza di alibi e di attenuanti, vuol togliere agli uomini il senso della loro colpa, del loro peccato. Lo osservi: tutte le ideologie della modernità sono unite da un dogma fondamentale. E , cioè, la negazione di quella realtà che la fede lega all’inferno: il peccato».

Ben consapevole che si tratta di una realtà misteriosa e sgradevole ma non rimovibile (parola di Gesù stesso: «I malvagi se ne andranno all’eterno supplizio») Ratzinger, prima come cardinale e ora come papa, non pratica sconti sul Credo e anche di inferno ha parlato e parla, con quel suo tono didattico e zelante e quel suo volto da fanciullo ottantenne. Lo ha fatto anche ieri nella parrocchia della periferia romana, mettendo in guardia chi amasse il peccato, chi volesse chiudere le porte a Dio. Chi insomma, all’inferno proprio volesse andarci. Perché, in effetti, proprio qui sta il problema: non Dio ci condanna, siamo noi stessi a farlo, a respingere – per qualche autodistruttività enigmatica – il perdono, la salvezza, la gioia.

C’è qualcosa di sospetto nella reazione spesso violenta del “mondo”, quando la Chiesa riafferma la sua convinzione dell’esistenza di un realtà che non può rimuovere, essendo su questo troppo recisa e chiara la Scrittura. Per il non credente anche, soprattutto l’inferno dovrebbe rientrare nei miti oscurantisti di una fede da respingere con uno scuotimento di spalle. E, invece, proprio qui certa cultura sembra reagire, come turbata ed inquieta, non con l’ironia ma con l’invettiva. Tanto che in quel Perché non sono cristiano, che è una sorta di summa delle ragioni del rifiuto del moderno Occidente, Bertrand Russell finì col restringersi a uno scandalo supremo, inaccettabile fra tutti: l’inferno, appunto.

Simili reazioni dimenticano che il vangelo si chiama così - buona notizia - perchè annuncia in Gesù il perdono di Dio, la redenzione, la salvezza. Ciò che la Chiesa predica, sulla scorta di quel vangelo, è il paradiso, è l’eternità di vita, di gioia, di luce in cui il Padre attende ciascuno. L’inferno non è creazione di quel Dio di misericordia, bensì dell’uomo. Dio lo ha forgiato libero, non ha voluto degli schiavi ma dei figli, non impone la Sua presenza proprio per rispettare la loro totale autonomia. La rispetta sino in fondo: sino, dunque, alla possibilità del rifiuto, ostinato e pervicace, della proposta di alleanza e di amore; sino alla possibilità di preferire le tenebre alla luce, il male al bene. Come ha detto qualcuno, con un paradosso non infondato, «senza l’inferno, il paradiso sarebbe un lager». Sarebbe, cioè, un luogo (o, meglio, un misterioso “stato”, non essendovi nell’aldilà il tempo e lo spazio), un luogo di destinazione obbligata cui nessuno potrebbe sottrarsi. La vita come una linea ferroviaria con un solo capolinea. Con l’abolizione conseguente della libertà di scegliere in tutta autonomia la propria destinazione. Foss’anche suicida.

A conferma del rispetto del mistero, la Chiesa, facendo beati e santi, impegna la sua autorità nel proclamare che un defunto è certamente in paradiso. Ma mai ha fatto, né mai farà, “canoni”, cioè elenchi, di dannati. Certo, malgrado ogni spiegazione, la prospettiva di una punizione eterna, senza riscatto, ha provocato e provoca interrogativi e reazioni nella Chiesa stessa. Qualche teologo ha ipotizzato che l’inferno esista sì, ma che sia vuoto. Eppure, non a torto qualcuno gli ha replicato: «Potrebbe anche essere vuoto. Ma ciò non toglie che proprio tu ed io potremmo essere i primi ad inaugurarlo».

Thursday, March 29, 2007

Autorità e figli: flussi e riflussi

Segnalo un articolo comparso su Il Giornale di oggi dal titolo “Lode alla disciplina. L'importanza di dire no”, a firma di Caterina Soffici .

Reazionario o estremamente moderno? Un libro che si intitola Elogio della disciplina (Rizzoli) sarebbe facilmente liquidabile sotto la prima definizione. Se però lo si legge senza lenti ideologiche, le cose cambiano. Perché si tratta di un pamphlet volutamente provocatorio, che mette il dito nella piaga dell’educazione moderna: ossia la mancanza di educazione. L’autore è il pedagogista tedesco Bernhard Bueb, classe 1938, per trent’anni rettore dell’esclusivo collegio di Salem, uno degli istituti più rinomati ed esclusivi della Germania. Il posto dove le famiglie bene, anche quelle molto radical e molto chic, mandano i propri rampolli, per intenderci.

Bueb, che la Bild Zeitung ha definito «il maestro più severo della Germania», parte da un concetto base: «I giovani hanno diritto alla disciplina». Tema trattato in un articolo apparso sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, che scatenò un acceso dibattito ed è alla base dell’idea di ampliare il discorso in un libro, subito balzato al terzo posto nella classifica dello Spiegel e bestseller da duecentomila copie.

In Germania parlare di disciplina e autorità è molto delicato, perché sono temi che evocano immediatamente i fantasmi del nazismo. E infatti Bueb spiega: «Il nazionalsocialismo ha minato le fondamenta stesse della cultura dell’educazione. I valori e le virtù che costituiscono il cuore della pedagogia patiscono ancora le conseguenze dell’uso improprio che ne fece il nazionalsocialismo: anche la variante tedesca della rivolta giovanile post-sessantotto non è stata altro che una conseguenza della catastrofe in cui il paese era precipitato».

Quindi? Quindi per educare veramente i giovani è necessario scremare gli eccessi autoritari da un lato e dall’altro quelli lassisti antiautoritari retaggio del Sessantotto e di tante teorie e metodi alternativi che hanno promosso un’educazione priva di imposizioni, libera e incondizionata.

Aveva fatto discutere nel 1999 il saggio della psicoterapeuta infantile inglese Asha Philips "I no che aiutano a crescere" (uscito in Italia per Feltrinelli con prefazione di Giovanni Bollea, che lo definiva «uno dei più bei libri che io abbia letto sull’argomento»). Questo Elogio della disciplina di Bueb è una sua prosecuzione ideale. Basta scorrere i titoli dei capitoli per capire cosa intenda dire: «Occorre ritrovare il coraggio di educare», «La libertà si conquista con la disciplina», «Potere assoluto ai genitori», «La disciplina come terapia», «Non bisogna sempre discutere tutto», «Il disordine è causa di dolore precoce», «Per educare con giustizia bisogna essere disposti a punire», «La famiglia non è tutto», «L’uomo è interamente uomo soltanto quando gioca», «Il talento da solo non basta».

Peggio che reazionario, dunque. Punizioni, ordine e disciplina e se ci mettete anche un richiamo ai valori, alla lealtà, all’onestà, all’attenzione verso il prossimo eccetera, ci possiamo aggiungere anche «bigotto». Ma non è così. Perché le tesi di Bueb, scremate da qualche rigidità un po’ troppo teutonica, andrebbero affisse in tutte le scuole italiane.

Andrebbe regalato a quei genitori che hanno menato il professore per un brutto voto al pupillo, al nonno che ha picchiato il preside colpevole di aver sequestrato il cellulare al nipote. Copie gratis anche ai genitori della ragazzina che si fa una canna in classe, a quelli del giovinastro che rolla davanti al prof e poi lo minaccia «se parli ti faccio massacrare», agli autori dei filmini porno in classe.

Tutto ciò che media, sociologi e pensatori di varia natura definiscono «bullismo», andrebbe chiamato con il suo nome vero: mancanza di educazione, ossia carenza, ossia che nessuno educa più. La famiglia da un lato e la scuola dall’altro hanno abdicato al loro ruolo. E questo non c’è bisogno che ce lo venga a dire Bernhard Bueb, il quale però può aiutare a capire come tutto ciò è potuto accadere.

Il «maestro più severo di Germania» non predica, come ci si potrebbe aspettare dalle premesse, il ritorno al «sacrosanto ceffone». Anzi, per lui le punizioni corporali sono mortificanti e non servono a niente. Ma le punizioni, quelle sì, sono sacrosante. «Chi dubita dell’utilità dei castighi sceglie la via del dialogo per aiutare i giovani a diventare assennati, ma influenzare il loro comportamento - e tanto più modificarlo - è impresa al di sopra della forze dei genitori, educatori, e insegnanti». E allora cosa fare? Sentite cosa ha fatto lui: «A Salem fino agli anni Ottanta abbiamo cercato di controllare l’uso di droghe, alcolici e sigarette ricorrendo al dialogo. È stato un fallimento. Con l’avvento di nuovi metodi chimici capaci di rintracciare nelle urine la presenza di droghe, dopo anni travagliati di sforzi infruttuosi abbiamo deciso da un giorno all’altro di introdurre l’esame delle urine: ogni mattina uno studente scelto a caso deve sottoporsi alle analisi e se risulta positivo viene espulso immediatamente. Già all’atto dell’iscrizione genitori e studenti devono sottoscrivere l’accettazione di questa norma. Dopo le prime espulsioni le droghe sono sparite dalla scuola».

Il vero problema, secondo il pedagogista, sta in uno strano concetto di libertà che ha preso piede in tutta Europa. Dice Bueb: «I giovani non vengono più allevati, ma si limitano a crescere da soli. Mentre avere il coraggio di educare significa prima di tutto avere il coraggio di esercitare la disciplina».

La generazione del Sessantotto, secondo Bueb, ha gettato alle ortiche Pierino Porcospino e ha regalato ai figli Pippi Calzelunghe, la meravigliosa creatura letteraria di Astrid Lindgren, che incarna un falso concetto di «libertà assoluta». I giovani confondono la libertà con l’indipendenza e «pensano di essere liberi quando si rifiutano di obbedire a una autorità e dunque si credono liberi da qualunque controllo». Sbagliatissimo, sentenzia Bueb. Perché solo attraverso la disciplina si raggiunge la vera libertà interiore.

Chi cerca nel libro facili formule da applicare al suo caso, rimarrà deluso. Purtroppo non c’è un decalogo: «Le formule - dice - sono il nemico giurato della pedagogia, perché l’applicazione schematica di regole prefissate contraddice l’essenza stessa del processo educativo». L’unica regola che Bueb sembra regalare è la seguente: «L’educazione non è altro che amore ed esempio» (secondo il motto di Friedrich Fröbel, il creatore dei Kindergarten). «Non occorre aggiungere altro».

Resta il dubbio: reazionario o estremamente moderno?

Tuesday, March 27, 2007

Breve divagazione su cattolici adulti e illuministi

Mesi fa, la cattolica ‘adulta’ Rosy Bindi, ospite a Otto e mezzo per commentare il caso Welby, sostenne che il cristianesimo le interesserebbe poco se si riducesse a prospettive riguardanti l’aldilà. A lei premono, invece, le questioni di questo mondo.
Ascoltando quest’opinione, ricordo di aver pensato che Dio, come tutto ciò che ha creato, ama certamente la materia. Non decise Dio di incarnarsi? Allo stesso tempo, però, Egli ha rivelato che, con la conversione, il fine ultimo dell’uomo è la vita eterna.
Oggi leggo su Libero un intervento di Antonio Socci in cui, affrontando il tema dell’inferno, cita un’esortazione alla Chiesa del pur ateo Leonardo Sciascia:
«Senza l’annuncio chiaro e centrale della Trascendenza, senza speranza di non morire, la religione diventa un club umanitario, un sindacato, un circolo di specialisti in etica, ma non un messaggio che appaghi i bisogni profondi del cuore umano».
In altre parole, lo scrittore siciliano ebbe ben chiaro in mente e apprezzò, lui ‘illuminista’, uno dei cardini del cristianesimo. Lui!

Thursday, March 08, 2007

Paolo Guzzanti difende i gay, ma alimenta la confusione dei lettori

Paolo Guzzanti in ‘Difendo i gay ma niente matrimonio’, pubblicato su Il Giornale del 5 marzo, si inserisce nel dibattito sui Dico e replica all’affermazione della senatrice Binetti, cattolica della Margherita, secondo cui ‘l’omosessualità è una devianza’. Purtroppo Guzzanti, nell’intento di contestare il pensiero della Binetti, semina confusione sull’argomento e cade, infine, in contraddizione. Vediamo perché.
“[…] gay si nasce e non si diventa, e meno che mai lo si diventa «per vizio», depravazione, degrado, «malattia» e altre scempiaggini che ancora oggi molti immaginano. […] Vivevo negli Stati Uniti dieci anni fa e rimasi molto colpito da un lungo reportage del Weekly Standard … in cui si dava notizia del fatto che secondo alcuni genetisti l’omosessualità maschile (non quella femminile) avrebbe un riscontro nel cromosoma «X»”.

Guzzanti abbraccia acriticamente la tesi di quei genetisti secondo cui l’omosessualità ha origini cromosomiche; non si pone la domanda se quella tesi sia stata accolta o meno dalla comunità scientifica. Senza entrare nel merito delle ricorrenti ‘scoperte’ circa il presunto collegamento genetica-omosessualità, mi limito a citare quanto si sostiene nell’autorevole rivista Science del 24 dicembre 1993, numero 262: “Non vi è nessuna componente genetica, ma piuttosto una componente ambientale condivisa nelle famiglie”. Nel numero 284 del 1999 si ribadisce che i risultati ottenuti dagli studi “non avallano l’esistenza di un gene alla base dell’omosessualità maschile”. Mi sembra sufficiente per dire che non sta bene spacciare per acclarato qualcosa che non lo è affatto.
“[..] la natura umana si presenta al mondo in alcune varietà e fra queste è piaciuto a Dio o al caso che vi fosse quella gay, e non soltanto fra gli uomini ma fra tutti i mammiferi superiori osservati dagli etologi”.

L’etologia sostiene che l’accoppiamento tra mammiferi di sesso opposto risponde all’istinto della propagazione della specie. L’omosessualità osservata fra i mammiferi superiori viene spiegata come effetto di un altro istinto, quello di sottomissione, di dominio di un individuo animale su un altro dello stesso sesso. L’omosessualità tra animali ha quindi un significato ben preciso, diverso da quella umana. Gli psicologi sanno che la sessualità umana non muove direttamente da istinti, è una sfera delicatissima della psiche assoggettata a fattori familiari e ambientali. Ne consegue che non è corretto mettere sullo stesso piano omosessualità umana e animale, come se fossero realtà assimilabili.
“Chi crede in Dio secondo me è tenuto a credere che Dio abbia voluto mettere al mondo l’identità gay e che abbia avuto le sue buone ragioni … l’identità sessuale non dipende da alcuna scelta e l'arbitrio non è affatto libero: ognuno è quel che è e non è quel che non è, punto e basta”.

Guzzanti non coglie un aspetto della questione: non è Dio che ha voluto l’orientamento omosessuale; Dio semplicemente lo permette, così come permette tutte quelle situazioni (ad es. la guerra) o comportamenti umani (come l’omicidio, la pedofilia, ecc.) che dipendono dalla volontà dell’uomo o sono espressione di un disagio psicologico e morale dell’uomo. Tipico errore di chi affronta l’argomento è poi quello di credere che la Chiesa cattolica condanni l’omosessualità, laddove invece nella Bibbia si condanna l’atto omosessuale. In altre parole, la Chiesa non colpevolizza l’omosessuale in quanto tale, dato che l’attrazione per persone dello stesso sesso non è, nella quasi totalità dei casi, il risultato di una scelta. Ciò che l’individuo sceglie è invece l’attuazione del comportamento omosessuale, ed è questo che viene condannato dalla Bibbia, da Dio.
“L’idea poi di convertire, piegare, «curare», terrorizzare e intimidire per riplasmare secondo un modello imposto coloro che sono fuori trend, ovvero fuori norma, ovvero «a-normali», mi sembra puramente nazista. O anche comunista, a piacere”.

Guzzanti ha ragione, però non sottolinea che un omosessuale che vive con dolore la sua situazione ha diritto a ricevere un aiuto serio e competente. In proposito, la Chiesa cattolica sostiene, fra le altre, la metodologia praticata dallo psicologo americano Joseph Nicolosi, volta appunto a far comprendere e superare le cause della propria omosessualità (terapia riparativa). Il lavoro di Nicolosi incontra molti oppositori. A sentire i critici, sembra quasi che questo psicologo e coloro che applicano il suo metodo vadano a caccia di omosessuali per le strade, per poi sottoporli a torture modello “Arancia meccanica”. La realtà, molto più verosimilmente, è diversa. Ripeto, si tratta di un metodo a cui possono ricorrere liberamente coloro che vivono con disagio la propria omosessualità. La constatazione scientifica da cui muove Nicolosi, ma non solo lui, è che omosessuali si diventa, non si nasce. Una parte della comunità scientifica, da svariato tempo ormai, ha raccolto evidenze in base alle quali le cause dell’omosessualità si trovano nella famiglia di origine e in un complesso di situazioni vissute dal soggetto durante l'infanzia, quando, in tutti gli esseri umani, si determina l’orientamento sessuale. Va sottolineato che non è facile superare il disordine dell’orientamento sessuale, soprattutto quando tale disordine è profondamente radicato.
“Chi come me è laico, si limita a dire che è giusto e doveroso provvedere tutte le unioni e convivenze umane degli strumenti del rispetto e della protezione, ma non è giusto, non è buono e non può essere legale chiamarli matrimoni ed aprire le unioni gay alla prospettiva dell’adozione, perché qualsiasi bambino ha diritto ad avere due genitori, uno con una identità e un comportamento maschile e uno con identità e comportamento femminile, perché con quelle identità dovrà lavorare per costruire la propria identità”.

Queste parole concludono l’articolo di Guzzanti. Apparentemente non fanno una grinza, ma, riflettendoci su, si scopre che qualcosa non quadra con quanto il giornalista ha scritto in precedenza. Guzzanti rifiuta, giustamente, l’adozione gay in nome dell’esigenza che hanno tutti i bambini di costruire la propria identità sessuale mediante la presenza di due genitori di sesso opposto. Tutto giusto, tutto perfetto, ma il giornalista non aveva detto prima che in materia di identità sessuale “ognuno è quel che è e non è quel che non è, punto e basta”? Non aveva cioè sostenuto che l’identità sessuale è congenita, che “gay si nasce e non si diventa”? Se è così, perché poi dice che un bambino necessita di due genitori di sesso opposto ché lo aiutino a costruire la propria identità sessuale?
Forse Guzzanti avrebbe fatto meglio ad evitare di affrontare un argomento che va al di là delle sue competenze di giornalista politico. A volersi proprio cimentare, avrebbe fatto bene a ricordare che la scienza è spaccata sull’argomento e che il respiro dell’analisi doveva essere un po’ più ampio. A proposito, neanch’io sono un esperto di genetica, di etologia, di psicologia o di pediatria. Dalla mia ho però che non scrivo su un quotidiano nazionale di informazione e di opinione che vende più di 200 mila copie al giorno.

8 marzo, festa inventata

C’erano una volta delle operaie tutte lavoro, fede socialista e sindacato; e c’era un padrone cattivo. Un giorno, le lavoratrici si misero in sciopero e si asserragliarono nella fabbrica. Qualcuno (il padrone stesso, a quanto si dice) appiccò il fuoco e 129 donne trovarono atroce morte. Era l’8 marzo 1908, a New York. Due anni dopo, la leggendaria femminista tedesca Clara Zetkin (immagine a destra) propose, al Congresso socialista di Copenhagen, che l’8 marzo, in ricordo di quelle martiri sociali, fosse proclamato “giornata internazionale della donna”.
Storia molto commovente, letta tante volte in libri e in giornali, fatta argomento di comizi, di opuscoli di propaganda, di parole d’ordine per le sfilate e le manifestazioni: prima del femminismo e poi di tutti. Sì, storia commovente. Con un solo difetto: che è falsa. Eh già, nessun epico sciopero femminile, nessun incendio si sono verificati un 8 marzo del 1908, a New York. Qui, nel 1911 (quando già la “Giornata della donna” era stata istituita), se proprio si vogliono spulciar giornali, bruciò, per cause accidentali, una fabbrica; ci furono dei morti, ma erano di entrambi i sessi. Il sindacalismo e gli scioperi non c’entravano. E neanche il mese di marzo.
Piuttosto imbarazzante scoprire di recente (e da parte di insospettabili quanto deluse femministe) che il mitico 8 marzo si basa su un falso che, a quanto pare, fu elaborato dalla stampa comunista ai tempi della guerra fredda, inventando persino il numero preciso di donne morte: 129… Ma è anche straordinario constatare quanto sia plagiabile proprio quella cultura che più si dice “critica”, che guarda con compatimento (per esempio) chi prenda ancora sul serio quelle “antiche leggende orientali” che sarebbero il Natale, la Pasqua, le altre ricorrenze cristiane.
E dunque, a qualcuno che facesse dell’ironia sulle vostre, di feste e pratiche religiose (messa, processioni, pellegrinaggi) provate a ricordargli quanti 8 marzo ha preso sul serio, senza mai curarsi di andare a controllare che ci fosse dietro.

Tratto da Vittorio Messori, Pensare la storia, Edizioni San Paolo, 1999, pp. 107-108.

Sunday, March 04, 2007

Se mi vuoi bene dimmi di no

“C’è una generazione che per pigrizia ha rinunciato a mettere dei paletti ai propri figli - è molto più comodo dire sempre di sì - e per i cascami dell’ideologia sessantottina («Vietato vietare») ha fatto tabula rasa di tanti valori tradizionali e di ogni senso dell’obbedienza, della disciplina, del dovere, dell’autorità.” Michele Brambilla riprende il discorso iniziato qualche settimana fa.