Viviamo tutti come se non dovessimo mai morire, come se la spiacevole incombenza riguardasse solo gli altri. Come se non sapessimo che da un momento all’altro noi, proprio noi, potremmo essere chiamati a render conto della nostra esistenza davanti al trono dell’Altissimo che ce l’ha donata, che è l’unico Padrone e Signore della vita.
Lo storico francese Pierre Chaunu tempo fa scrisse: “ci è capitata una curiosa avventura: avevamo dimenticato che si deve morire. E’ ciò che gli storici concluderanno dopo aver esaminato l’insieme delle fonti scritte della nostra epoca. Un’indagine sui circa centomila libri di saggistica usciti negli ultimi vent’anni mostrerà che solo duecento (una percentuale, dunque, dello 0,2 per cento) affrontavano il problema della morte. Libri di medicina compresi”. Tuttavia la morte, che se ne frega dei libri di saggistica, testardamente continua a farci visita con una certa frequenza. Quando irrompe fastidiosamente nelle nostre giornate parrebbe inevitabile parlarne, ma abbiamo studiato una serie di procedure e riti per evitare di guardarla in faccia. In genere si dribbla l’inquietante domanda, straparlando del deceduto. Se si tratta di un personaggio famoso è tutto sopra le righe, tracima in chiacchiericcio, in retorica o in pettegolezzo. Nessuno prega. E nessuno accenna una riflessione. Eppure è chiaro che cosa fragile ed effimera sia la vita: sic transit gloria mundi…
Anche per Pavarotti è stato così. Celebrazioni, fiumi di inchiostro ore di televisione, dichiarazioni, discussioni, canonizzazioni. Ci si è messo pure il vescovo di Modena che ha trasformato l’antica Cattedrale in camera ardente come si fa per i papi o per i santi. E Romano Prodi è andato a fare l’orazione funebre. Tutti parlano. Nessuno sui giornali accenna una riflessione sul mistero della vita. Nessuno fa silenzio. Nessuno prega.
Padre Remo Sartori, che ha dato l’estrema unzione a Pavarotti, ha raccontato ieri che negli ultimi mesi il maestro lo cercò: “Mi contattò a Pasqua. Sapeva di essere malato, e sentiva la necessità di un conforto spirituale”. Così si è avvicinato di più a Dio: “in lui c'era una fede di fondo sulla quale non nutriva dubbi”.
Quando sorella morte si fa annunciare dalla malattia e dalla sofferenza all’inizio ci sentiamo ingiustamente bersagliati dalla sorte, ma alla fine per tanti si rivela una grazia, un tempo di misericordia. Don Giussani diceva: “Dio chiede una più particolare partecipazione alla Croce per la redenzione del male del mondo. Dio desidera la purificazione dei nostri peccati. E il digiuno e la disciplina che non pratichiamo volontariamente, il Signore misericordioso ce li fa vivere attraverso questi dolori e queste privazioni. Ma lo scopo più grande di tali avvenimenti è di richiamarci, soprattutto nei momenti di lotta vertiginosa, che Lui solo è il Vero, Lui solo è la speranza”.
A me è capitato, solo pochi mesi fa, di vivere la malattia e la morte di mio padre pregando proprio con la voce di Pavarotti (che è stato un dono di Dio per tutti). Mio padre era in ospedale, ormai in rianimazione. Stava morendo. E per qualche giorno, andando a trovarlo, ascoltavo in auto una struggente canzone di Eric Clapton che questo artista cantò proprio con Pavarotti al “Pavarotti and friends for war child”. Era una preghiera alla Madonna.
Accenno (traducendole) le parole di “Holy Mother”, ma l’emozione dei suoni di Clapton e della voce di Pavarotti è indescrivibile. Le prime strofe cantate dalla voce malinconica di Clapton dicevano: “Madre Santa, dove sei?/ Stanotte sono a pezzi/ Ho visto le stelle cadere dal cielo/ Madre Santa, non posso trattenermi dal piangere./ Oh, stavolta ho bisogno del tuo aiuto/ Fai che finisca questa notte di solitudine/ Dimmi per favore per quale via andare/ per ritrovare me stesso di nuovo./ Madre Santa ascolta la mia preghiera/ In qualche modo so che ci sei sempre/ Manda un po’ di pace al mio cuore/ toglimi questa angoscia./
Poi Clapton ripeteva “I can’t wait”, non posso più aspettare a lungo, non farti attendere ancora. Qui entrava la voce travolgente di Pavarotti: “Madre Santa ascolta il mio pianto/ io ho imprecato il tuo nome migliaia di volte/ ho sentito la rabbia attraversarmi l’anima/ ma ora ho bisogno della tua mano da poter afferrare./ Oh sento che la fine sta arrivando/ le mie gambe non correranno più a lungo/ Tu sai che in questa notte io preferirei essere tra le tue braccia”. E il finale, dolcissimo: “Quando le mie mani non suoneranno più/ la mia voce ci sarà ancora, ma io svanirò/ Madre Santa, allora io sarò/ disteso, in salvo tra le tue braccia”.
Alla fine questo solo conta: di poter essere perdonati e abbracciati. Per questo la cosa più importante, secondo me, è morire in pace con Dio. Il resto è nulla. Siamo tutti ombre che passano in pochi istanti sul teatro del mondo. Come l’erba dei campi è la nostra vita: in un giorno dissecca. L’unica chiave per entrare nella vita vera, quella che dura per sempre, è affidarsi alla misericordia di Dio. E la Chiesa è la grande fontana della Misericordia. Tutti lo avvertiamo, per questo tanti (anche personalità note come laiche) alla fine si riavvicinano ai sacramenti.
La cosa più confortante per tutti noi è ascoltare quello che un giorno Gesù disse alla mistica polacca santa Faustina Kowalska (recentemente canonizzata). La citazione è lunga (mi scuserete), ma vale la pena: “Desidero che i miei Sacerdoti annunzino questa mia grande misericordia per le anime peccatrici. Il peccatore non tema di avvicinarsi a Me. Anche se l’anima fosse come un cadavere in piena putrefazione, se umanamente non ci fosse più rimedio, non è così davanti a Dio. Le fiamme della misericordia mi consumano, desidero effonderla sulle anime degli uomini. Io sono tutto amore e misericordia. Un’anima che ha fiducia in Me è felice, perché Io stesso mi prendo cura di lei. Nessun peccatore, fosse pure un abisso di abiezione, mai esaurirà la mia misericordia, poiché più vi si attinge più aumenta. Figlia mia, non cessare di annunziare la mia misericordia, facendo questo darai refrigerio al mio Cuore consumato da fiamme di compassione per i peccatori. Quanto dolorosamente mi ferisce la mancanza di fiducia nella mia bontà! Per punire ho tutta l’eternità, adesso invece prolungo il tempo della misericordia per loro. Anche se i suoi peccati fossero neri come la notte, rivolgendosi alla mia misericordia, il peccatore mi glorifica e onora la mia Passione. Nell’ora della sua morte Io lo difenderò come la stessa mia gloria. Quando un’anima esalta la mia bontà, Satana trema davanti ad essa e fugge fin nel profondo dell’inferno. Il mio cuore soffre perché anche le anime consacrate ignorano la mia Misericordia e mi trattano con diffidenza. Quanto mi feriscono! Se non credete alle Mie parole, credete almeno alle Mie piaghe!”
Antonio Socci, Libero, 9 settembre 2007
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