Friday, April 08, 2011

Per la Littizzetto il premio di Napolitano, per i preti il dileggio

I cattolici sono indignati con Rai 3. Si sentono bersagliati ingiustamente e si sono stancati di subire in silenzio.
Prendo a simbolo un giovane prete, che chiamerò don Gianni, un bravissimo sacerdote che – fra le altre cose, insieme ad altri – si fa in quattro e dà letteralmente la vita, per aiutare immigrati, emarginati, “barboni” e tossicodipendenti.
L’ultimo episodio che ha fatto indignare lui e molti altri come lui, è stata l’incredibile invettiva contro la Chiesa fatta da Luciana Littizzetto a “Che tempo che fa”, domenica sera (che sta pure su Youtube).
E’ considerato un caso emblematico della tendenza di Rai 3, la rete simbolo dell’Italia ideologica. Il programma è quello di Fabio Fazio, programma cult della sinistra salottiera.
E’ noto che ogni domenica sera la Littizzetto fa le sue concioni avendo come spalla lo stesso Fazio.
Ebbene domenica, parlando di Lampedusa, a un certo punto – senza che c’entrasse nulla – la Luciana si è lanciata in un attacco congestionato contro la Chiesa, a proposito dell’arrivo dei clandestini tunisini, e ha urlato ai vescovi “dicano qualcosa su questa questione”.
I vescovi, a suo parere, stanno sempre a rompere “e adesso stanno zitti… fate qualcosa! Cosa fanno?”.
A me pare che non esista affatto l’obbligo per la Chiesa di farsi carico di tutti i clandestini che vengono dall’Africa.
In ogni caso il quotidiano dei vescovi, Avvenire, ieri ha sommessamente obiettato alla Littizzetto che la Chiesa non ha taciuto affatto e che proprio la scorsa settimana il segretario generale della Cei, monsignor Crociata ha convocato una conferenza stampa per informare che 93 diocesi hanno messo a disposizione strutture capaci di ospitare 2500 immigrati, caricando sulla Chiesa tutte le spese.
Ma questa risposta di Avvenire è uscita in ultima pagina, sussurrata e con un tono benevolo, sotto il titolo: “Chissà se Lucianina chiede scusa”.
Fatto sta che attacchi come quelli della Littizzetto sono stati visti e ascoltati da milioni di telespettatori e ben pochi avranno letto la documentata risposta di “Avvenire”.
Forse si può e si deve rispondere anche più energicamente. C’è chi vorrebbe pretendere le scuse del direttore di Rai 3 e soprattutto il diritto di replica.
In nome dei tantissimi sacerdoti, suore e cattolici laici che in questo Paese da sempre, 24 ore al giorno, sputano sangue per servire i più poveri ed emarginati e che poi si vedono le Littizzetto e tutta la congrega di intellettualini e giornalisti dei salotti progressisti che, dagli schermi tv, impartiscono loro lezioni di solidarietà.
Sì, perché la Littizzetto non si è limitata a questo assurdo attacco (condito di battute sul cardinal Ruini).
Poi, fra il dileggio e il rimprovero morale, si è addirittura impancata a seria maestra di teologia e ha preteso persino di evocare il “discorso della montagna” – citato del tutto a sproposito – per strillare ai vescovi e alla Chiesa: “ero nudo e mi avete vestito, ero malato e mi avete visitato, avevo sete e mi avete dato da bere… Il discorso della montagna lì non vale perché sono al mare?”.
E poi, sempre urlando, ha tuonato: “c’è la crisi delle vocazioni, ci sono seminari e conventi vuoti: fate posto e metteteli lì, che secondo me poi sono tutti contenti”.
Non sarebbe neanche il caso di segnalare che l’ignoranza della Littizzetto è pari alla sua arroganza, perché il “discorso della montagna” sta al capitolo 5 del Vangelo di Matteo, mentre i versetti citati da lei – che non c’entrano niente – stanno addirittura al capitolo 25 (quelli sul giudizio finale che non piacerebbero proprio alla comica di Rai 3).
Non sarebbe il caso di sottolineare la gaffe se la brutta sinistra che ci ritroviamo in Italia non avesse elevato comici come lei al rango di intellettuali e addirittura di maestri di etica e di civiltà.
Apprendo addirittura (da Internet) che “il 22 novembre 2007 Luciana Littizzetto ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il prestigioso premio De Sica, riservato alle personalità più in luce del momento nel mondo dello spettacolo e della cultura”.
Se queste sono le “personalità della cultura” che vengono premiate addirittura da Napolitano è davvero il caso di dire “povera Italia!”.
viene in mente Oscar Wilde: “Chi sa, fa. Chi non sa insegna”.
Chi conosce il Vangelo e lo vive, come il mio amico don Gianni, si fa in quattro per dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati.
Chi invece non lo conosce, pretende di insegnarlo, lautamente pagato per le sue scenette comiche su Rai 3, e si lancia all’attacco dei “preti”.
Visto che sia la Littizzetto che Fazio – il quale ha assistito a questa filippica sugli immigrati senza obiettare, facendo ancora la spalla – mi risulta siano ben retribuiti e non vivano affatto nell’indigenza, vorrei sapere, da loro due, di quanti immigrati si fanno personalmente carico. Quanti ne ospitano a casa loro? Quanto danno o sono disposti a dare, dei loro redditi, per accogliere e spesare tunisini, libici e altri clandestini?
Considerata l’invettiva della Littizzetto e il suo pretendere che altri (la Chiesa) ospitino gli immigrati a casa loro, non posso credere che lei per prima non faccia altrettanto.
Sarebbe veramente una spudoratezza inaccettabile.
Vorrebbe allora – gentile signora Luciana – mostrarci la sua bella casa piena di tunisini che lei avrà sicuramente ospitato?
La Chiesa non ha certo bisogno delle lezioni di “Che tempo che fa” per spalancare le sue braccia a chi non ha niente. Lo fa da duemila anni.
E dà pure per scontato che il mondo non se ne accorga e neanche la ringrazi. Ma che addirittura debba essere bersagliata dalle lezioncine è inaccettabile, soprattutto poi se a farle fossero persone che non muovono dito per i più poveri.
Intellettuali, comici e giornalisti dei salotti progressisti che spesso schifano l’italiano medio (e anzitutto i cattolici), che stanno sempre sul pulpito, col ditino alzato, a impartire lezioni di morale, di solito non vivono nell’indigenza.
Molti di loro trascorrono le giornate fra gli agi, in belle case e al riparo di cospicui conti in banca. Qualcuno – come si è saputo di recente – si avventura pure in investimenti sbagliati. Temerari.
Io non so come vivano loro la solidarietà. Ma a me personalmente non è mai capitato di trovarne uno che fosse disposto a coinvolgersi in iniziative di solidarietà e di carità verso i più infelici quando le ho proposte loro.
Ce ne saranno, ma io non ne ho mai trovati. Prima di impancarsi a maestri e censori degli altri, non sarebbe il caso che anzitutto testimoniassero ciò che fanno loro personalmente?
Noi cattolici educhiamo i nostri figli alla carità come dimensione vera della vita.
Mio figlio di 14 anni trascorre il sabato mattina con altri coetanei, insieme a don Andrea, a portare generi alimentari a barboni e famiglie indigenti. E a far loro compagnia.
Don Andrea educa i suoi ragazzi portandoli anche con le suore di Madre Teresa che vanno a cercare i clochard, se ne prendono cura, li lavano, li medicano, mi rifocillano.
Io non ho mai visto un solo intellettuale di sinistra lavare un barbone. Invece i preti, le suore e i cattolici che lo fanno sono tantissimi.
Sono persone che fin da giovani hanno deciso di donare totalmente la loro vita, per amore di Gesù Cristo.
rinunciato a una propria famiglia, vivono nella povertà (i preti, titolati con studi ben superiori alla media, vivono con 800 euro al mese) e servono l’umanità per portare a tutti la carezza del Nazareno.
La Chiesa sono questi uomini e queste donne. E’ di questi che straparlano spesso certi intellettuali da salotto.
Non so quanto se ne rendano conto, soddisfatti e compiaciuti come sono di se stessi. Non so se sono ancora in grado di provare un po’ di vergogna.
Ma so che questa sinistra intellettuale (quella – per capirci – che se la prende con i crocifissi e che sta sempre contro la Chiesa) fa davvero pena, fa tristezza.
Certamente è quanto ci sia di più lontano dai cristiani.

Antonio Socci

Da “Libero”, 7 aprile 2011

Monday, February 21, 2011

L’Italia dei comici e dei cantanti e l’Italia degli italiani

Su "Unità d'Italia-Intervento di Benigni a Sanremo" riporto l'opinione dello storico Massimo Viglione, opinione molto diversa da quella espressa da Antonio Socci.

L’Italia dei comici e dei cantanti e l’Italia degli italiani

Il nuovo vate nazionale, comico che deve fa ridere per forza (chi non ride sulle sue battute è, come si dice oggi, “out”), nuovo intellettuale organico adatto ai nuovi tempi del nulla imperante, ci ha nuovamente esaltato, nel nuovo tempio dello Stato italiano (l’altare della patria in realtà non lo è mai stato), la “Nuova Italia”, quella nata 150 anni or sono.

E subito, appena il giorno dopo, anche il nostro governo ha ceduto: ha finalmente dichiarato che il 17 marzo sarà festa nazionale (a scapito però del tradizionale 4 novembre, per non scontentare troppo Confindustria). Come chiunque può comprendere, alcune riflessioni, per quanto velocissime, appaiono necessarie. Il nostro popolo ha avuto diversi vati nel corso dei secoli, anzi, dei millenni. Virgilio e Orazio, quando dominavamo il mondo, sebbene la Stato italiano non esistesse, bensì l’Italia era il cuore del più importante impero sovranazionale di tutti i tempi, fucina del diritto e della civiltà occidentale; il Vate per antonomasia, il divin Poeta, il più grande genio umano di tutti tempi, che ci ha lasciato la più eccelsa e irraggiungibile opera di tutti i tempi, che ha segnato per sempre la formazione della nostra lingua, che ci ha ricordato il senso spirituale, morale e anche politico di questa fugace vita in attesa della futura eternità: tutto questo quando l’Italia era divisa in decine e decine di Stati e staterelli, poleis e feudi, ma pienamente unita in quello spirito religioso e civile che Dante ha colto come nessun altro uomo ha mai saputo fare con la propria epoca; Torquato Tasso, molto più che l’Ariosto, seppe incarnare il senso di una nuova epoca che poneva Dio e la Chiesa Cattolica e la civiltà ad essa connessa nel centro del cuore degli italiani, producendo alcuni fra i più grandi artisti di tutti i tempi; eppure l’Italia era divisa in Stati in parte soggetti a monarchie straniere; quindi Foscolo, illuso e piagnone servitore di un italiano sì geniale ma ipocrita e rinnegato che con i suoi eserciti francesi aveva promesso libertà e che portò morte, latrocinio, oppressione, e offesa all’identità italiana; e dopo di lui Leopardi, geniale cantore di una visione della vita estranea agli italiani, e Manzoni, operatore di una conciliazione ardita fra il sentimento romantico rivoluzionario e il secolare ordine cristiano cardine dell’identità italiana: eppure l’Italia era ancora divisa in 7 Stati, dei quali però solo uno era soggetto ormai allo straniero; infine i vati dell’Italia postunitaria, Carducci esaltatore di Satana, Pascoli speranzoso nel lavacro socialista e D’Annunzio, fautore del “nuovo italiano”, dimentico del bene e del male.

Poi i vati sono finiti, con la morte della cultura italiana, o meglio, della Cultura, schiacciata dalla guerra civile, dall’odio partigiano, dall’affarismo della rinascita, dal compromesso politico e culturale con il sole dell’avvenire, che ci ha portato le foibe e il Sessantotto, il terrorismo e l’odio sociale, lo statalismo e il radicalismo chic dispregiatore senza limiti di tutto ciò che per millenni è stato costitutivo della grandezza vera e irraggiungibile della civiltà italiana. Ma l’Italia ora è unita… Adesso, finalmente, abbiamo di nuovo un vate, dopo quasi un secolo. Roberto Benigni. E un nuovo tempio nazionale: il teatro Ariston di Sanremo, con fiori, musica e colori, e con tanto di vallette, cantanti e comici. E un pubblico sempre plaudente. E un conduttore cantante che voleva festeggiare l’unità cantando “Bella ciao”…

Da Virgilio a Benigni, passando per Dante. Il meraviglioso itinerario della storia italiana. Ma l’Italia è ora unificata da 150 anni. E gli italiani sono uniti? Quando ieri sera Benigni ha più volte (in maniera spiritosa, s’intende) ironizzato su Berlusconi e le minorenni, quanti milioni di italiani a casa si sono nei loro cuori sentiti uniti? Quanti milioni di italiani hanno magari pensato a Vittorio Emanuele II, esaltato dal post-comunista Benigni come il “Re Galantuomo”, che una sera sì e l’altra pure si faceva portare dai suoi servitori nella sua stanza da letto femmine prelevate dai bordelli di Torino? (per non dire dei suoi amori con tredicenni e giù di lì… come lo chiameremmo oggi un uomo adulto che va con una tredicenne? “Galantuomo” o in altro modo?).

Quando Benigni ha detto che i Borbone opprimevano in maniera mostruosa i meridionali mentre grazie a Dio oggi il Meridione è “libero”, quanti meridionali si sono sentiti uniti? Quando Benigni ha detto che Garibaldi e Cavour si sono sacrificati morendo poveri per l’Italia, quanti italiani hanno visto in lui un vate? Oppure quanti hanno visto solo un patetico barzellettaio? Se il conduttore della trasmissione-culto della “Nuova Italia” avesse veramente cantato “Bella ciao”, quanti italiani si sarebbero sentiti uniti? E, a questo proposito, mi pongo una domanda.

Anzi, due: 1) come mai in questi 150 anni abbiamo fatto festa nazionale il 4 novembre, il 28 ottobre (sotto il fascismo), il 25 aprile, il 2 giugno, e mai il 17 marzo, forse l’unica festa sensata in sé, visto che è la data di costituzione dell’unità nazionale? Come mai abbiamo sempre festeggiato di tutto e di più ma mai l’unificazione?

2) Per quale ragione, per immettere il 17 marzo (una tantum, naturalmente) in questo anno abbiamo tolto la festa del 4 novembre? Tale festa divide pochissimo gli italiani, sia perché la maggior parte di loro, specie i più giovani, neanche sa di cosa si tratta, sia perché rimane l’unica vittoria militare di grande rilievo dell’Italia unificata (con aiuto straniero, s’intende); pertanto, sono pochissimi coloro che nel loro cuore la sentono come una festa che divide e ferisce (fra questi pochissimi, chi scrive).

Sarebbe stato molto più sensato far saltare il 25 aprile, festa da tutti conosciuta, e, apertamente o nel segreto dei cuori, dalla grande maggioranza degli italiani subita controvoglia se non disprezzata come fomentatrice di odio e violenza: festa che ci ricorda – direttamente o indirettamente – la dittatura, la disfatta militare, la “morte della patria”, la guerra civile, l’odio fra fratelli e amici, le fucilazioni, le retate, le violenze sessuali, le vendette di massa, i campi di sterminio e le foibe, invasori spietati sul suolo patrio, la menzogna di una “guerra di liberazione” che fu solo una guerra al servizio di stranieri invasori, dall’una e dall’altra parte della barricata. Festa della divisione civile per eccellenza, festa che più di ogni altra ricorda quanto siamo divisi, quanto l’Italia unificata sia non mai riuscita a “fare gli italiani”.

Chi scrive queste riflessioni non lo fa in spregio al valore dell’unità nazionale. Lo fa come denuncia della menzogna risorgimentale. Un conto è l’unità nazionale, un conto è l’unità degli italiani.

Proprio l’aver unificato l’Italia nel modo in cui è stata unificata, senza partecipazione popolare, contro la Chiesa e la religione degli italiani, conquistando con bestiale brutalità la metà meridionale della Penisola per poi imbarcare milioni di persone per il nuovo mondo, e altro ancora, è la causa fondamentale, insieme alle menzogne storiche perpetuate in questi 150 anni, fino a ieri sera, del fatto che il popolo italiano rimane il più diviso al suo interno fra tutti i popoli dell’Occidente.

Ecco cosa festeggiamo in questi giorni: il fallimento dell’unità degli italiani, come ogni dì ognuno di noi può facilmente verificare. Andatelo a dire al nuovo vate della nuova Italia: ma penso che sia inutile, ora sarà troppo distratto contando la vergognosa montagna di soldi che gli hanno dato (proprio coloro che ogni giorno accusano il governo di non pensare alle difficoltà quotidiane degli italiani) per dirci che il Meridione gemeva sotto i Borbone mentre oggi è libero e prospero e che Garibaldi e Cavour sono morti poveri. Poveri come lui.

Articolo pubblicato sul sito Libertà e Persona

Ma ci voleva un comico per farci sentire un popolo?

Roberto Benigni merita un grande “grazie!”. Certo, alcune baggianate le ha dette nella sua performance al festival di Sanremo.

Per esempio, se ho ben capito (perché affastellava argomenti con un eloquio sovraeccitato) ha detto che fu Mazzini, nel 1830, a inventare il Tricolore. E’ una sciocchezza.

Chissà come gli è venuta in mente: il Tricolore fu concepito da Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, a Bologna nel 1794 (l’ho raccontato di recente su queste colonne). E fu poi ripreso – come tutti sanno – dalla Repubblica Cispadana nel 1797. Mazzini non era neanche nato.

Suggestivo è il riferimento benignesco alle origini del Tricolore dalla Divina Commedia (Purg. XXX, 30-33), ma purtroppo l’attore toscano ignora che i colori bianco, rosso e verde del vestito di Beatrice indicano le tre virtù teologali, Fede, Speranza e Carità e così il riferimento dantesco rimane monco.

Qualcuno poi dovrà spiegare a Bossi e alla Lega che il Tricolore nasce dallo stendardo della Lega lombarda (la croce rossa in campo bianco che proveniva dalle crociate) e che l’unità d’Italia è in gran parte un’ “impresa padana”.

Ma chissà se ascolteranno.

Per tornare a Benigni, ci sono poi le gaffe dovute all’ingarbugliamento verbale del comico, come quando ha detto che la cultura italiana esisteva prima della nazione: una cosa senza senso, chissà perché rilanciata dai tg come una geniale idea.

In realtà intendeva dire che la nazione e la cultura italiane esistevano prima dello Stato unitario (che è sorto appunto nel 1861).

Era uno spunto bello – quello della cultura italiana che precede lo Stato – che sarebbe stato da approfondire. Peccato che l’abbia lasciato cadere.

E peccato che l’orazione civile di Benigni abbia celebrato un Risorgimento da scuola elementare di cento anni fa.

E’ stato un alluvione di retorica da piccola vedetta lombarda. Ha narrato una favoletta piena di eroi giovani e forti (che sono morti) assai lontana dalla realtà dei fatti.

Non c’è stato nemmeno il sentore delle zone d’ombra, degli errori e pure degli orrori della “conquista piemontese”.

Detto questo credo che Benigni sia stato grande e abbia fatto comunque una grande cosa.

Prima di tutto per la sua emozione e la sua commozione che ci hanno toccato il cuore e che ci hanno fatto sentire come nostro perfino un inno nazionale improbabile e per certi aspetti imbarazzante.

Il caso Benigni è emblematico. Nessuno ha riflettuto su quanto sia singolare che a un comico sia di fatto affidata l’unica vera celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia (in effetti la performance di Benigni a Sanremo era più attesa dei discorsi ufficiali del presidente Napolitano).

In realtà c’è una ragione profonda. E’ data dal fatto che, dopo il fascismo, che ridusse l’amor di patria a una macchietta comica prima e tragica poi (per il nazionalismo, il colonialismo e la catastrofe bellica), le sole due modalità che gli italiani, nel cinquantennio repubblicano, si sono concessi per essere patriottici sono state il calcio (lo stadio, dove giocava la Nazionale, è diventato l’unico posto dove sventolavamo il Tricolore) e la comicità (vedi “La grande guerra” interpretata da Gassman e Sordi, per fare un esempio).

Il registro comico ci permette infatti di dirci che siamo fieri di essere italiani (specie col mito “italiani brava gente”), ma con un sorriso rassicurante, col sottinteso cioè che non ci prendiamo troppo sul serio e nessuno si sogna più di emulare la Roma imperiale: infatti gli italiani possono essere solo “eroi involontari”, proprio come Gassman e Sordi in quel capolavoro di Monicelli.

Anche il palcoscenico della celebrazione di Benigni era emblematico: il festival di Sanremo e la Tv.

Emblematico perché (primo) Festival e Tv sono il tempio del sentimento nazional-popolare, (secondo) perché rientrano perfettamente nello stereotipo più diffuso e banale – gli italiani spaghetti e mandolino – e (terzo) perché confermano perfino lo stereotipo colto per il quale – in fin dei conti – la nostra arte e la nostra cultura ci fanno da duemila anni il cuore del mondo (del resto il Festival si vanta di essere “la musica italiana”).

C’è un’altra piccola rivoluzione memorabile compiuta da Benigni: per un cinquantennio la parola “patria” è stata un tabù per la Sinistra comunista e per la cultura ufficiale. Bastava pronunciarla per essere accusati di fascismo.

Non solo. I comunisti avevano certamente dato un grandissimo contributo alla liberazione del Paese dal nazifascismo, nella guerra partigiana, però il Pci era asservito a Stalin, a una potenza straniera minacciosa e nemica dell’Italia.

Per capire cosa significa ciò bisogna ricordare che nel momento più drammatico dello scontro fra mondo libero e Urss, attorno al 1948-1949, quando l’Armata Rossa si stava divorando mezza Europa, asservendo decine di Stati dell’Est europeo e arrivando fino a Trieste con mire fameliche e aggressive, uno come Enrico Berlinguer – il migliore di quel campo (a quel tempo leader della Fgci) – affermava che in caso di guerra i giovani non avrebbero combattuto contro l’Armata Rossa.

Fece indignare lo stesso De Gasperi che gli rispose di persona, con un suo duro discorso (il legame del Pci con l’Urss è durato a lungo: perfino i finanziamenti sovietici sono arrivati fino alla fine degli anni Settanta).

Ancora negli anni Ottanta – nella decisiva vicenda degli euromissili (che poi porterà tali cambiamenti a Mosca da provocare il crollo del comunismo) – il Pci, anziché schierarsi con la Nato per far fronte alla minaccia dei missili sovietici puntati sull’Europa, scelse un “pacifismo” che di fatto significava non difendere gli interessi nazionali e avvantaggiare l’Urss (chissà se il presidente Napolitano ricorda…).

Ciò detto che oggi si possa parlare di “patria” senza più i tabù ideologici del passato, come ha fatto Benigni, è una gran bella cosa. Che tutti insieme ci si possa riconoscere nel nostro passato e nel nostro Paese, come una sola famiglia è meraviglioso.

Tanto più in questo anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale, nel quale il Paese sembra dilaniato dagli odi e il disprezzo reciproco quasi rende impossibile riconoscersi come un solo popolo.

Benigni si è trovato a svolgere un ruolo che non dovrebbe essere affidato a un attore, specialmente a un attore comico, ma ha trovato nella propria religiosità il modo per cantare un inno che ci ha unito e che nessuno avrebbe potuto restituire con eguale semplicità. Per qualche minuto sugli odi e sul disprezzo reciproco ha prevalso in tutti la sensazione di essere un popolo. E ha prevalso l’amore per quella cosa bellissima che si chiama Italia.

Antonio Socci su Libero, 19 febbraio 2011

Friday, February 04, 2011

I peccati

"Tutti i peccati sono tentativi di colmare dei vuoti". (Simone Veil)

Sono i vuoti nell'anima provocati, dopo il peccato originale, dall'assenza della grazia. Se non si accoglie l'amore di Dio e non ci si lascia trasformare da esso, tali vuoti continuiamo a colmarli, per l'appunto, coi peccati.

Wednesday, February 02, 2011

La replica di Vittorio Messori

Vittorio Messori risponde alle perplessità di molti cattolici a proposito delle sue recenti annotazioni storiche su cristianesimo e Islam. Si veda in proposito l'articolo di Antonio Socci "Ma Messori sta col Papa o col Grande Imam?"


La verità che rende liberi
di Vittorio Messori

Trovo da qualche parte, in rete, dei cattolici che si dicono inquieti per alcuni contenuti di questa rubrichetta che nasce, senza pretese, da “due chiacchiere“ mattiniere con un collega che mi telefona. Sono cattolici (e dunque, per me, fratelli nella fede, con i quali mi sento solidale) che si chiedono e mi chiedono se sia opportuno non tacere certi episodi della vicenda ecclesiale. Così, ad esempio, parlando dell’Islam sembra sgradevole ricordare ciò che la storia ci attesta: nell’Africa del Nord i pochi incursori venuta dall’Arabia poterono diventare presto, e con poco sforzo, padroni perché accolti come liberatori dai cristiani locali, in feroce rissa tra loro ma uniti nell’odio verso Bisanzio. Oppure, non tacere che i musulmani sbarcarono in Spagna e, qui pure, in poco tempo si installarono da dominatori, perché chiamati ed aiutati da una parte della nobiltà visigota cristiana in lotta con l’altra parte. O ricordare che la Francia “cristianissima“ fu spesso e volentieri, persino a Lepanto, dalla parte dei Turchi. O anche, parlando di radici cristiane dell’Europa, riconoscere che in certe zone del Continente il vangelo fu imposto con la spada, che monaci-soldati come i Cavalieri Teutonici portavano il terrore, che popoli come i Sassoni furono massacrati da “san” Carlo Magno anche perché non volevano accettare il Vangelo, che ancora in pieno Medio Evo i Paesi baltici combattevano in difesa dei loro dèi pagani.

Ho l’impressione che quei cattolici che si dicono sconcertati siano lettori “nuovi“, che non abbiano cioè seguito quanto ho scritto e scrivo, ormai da molti anni, in un’altra rubrica,“Vivaio”, ospitata prima dal quotidiano Avvenire e ora dal mensile Il Timone. In quelle molte pagine (confluite poi in quattro libri, ristampati di recente dalle edizioni Sugarco) mi sono sempre ispirato a una convinzione: quella, cioè, che il Dio di Gesù Cristo non ha bisogno delle nostre bugie o delle nostre furbizie ed omissioni. E che la ricerca della Verità, ma quella tutta intera, è dovere sacro per chi crede nel Vangelo. Sostengo da sempre la necessità di riscoprire l’apologetica cattolica, intesa nel senso di contrasto delle molte, troppe “leggende nere“ create attorno alla Chiesa dai suoi nemici. Ma l’apologetica può essere un boomerang che ci si ritorce contro, se cercassimo di nascondere le carte che temiamo di mettere allo scoperto. Non esitai a scrivere, con umiltà ma chiarezza, per giunta sulla prima pagina del più diffuso quotidiano italiano, la mia perplessità per le continue richieste di perdono, a tutti, di Giovanni Paolo II. Ma questa perplessità nasceva dal fatto che quel Papa, pur grandissimo, talvolta non sembrava bene informato su certe complesse vicende storiche. Come ovvio, del resto: quale uomo può essere onnisciente? Ma mi era, e mi è, chiaro che si può, si deve discutere sugli eventi della storia ma che un principio è indiscutibile : la Chiesa è santa eppure è composta da peccatori e il Vangelo è la rivelazione di un Dio che ha voluto affidarsi ai limiti e agli errori della umanità. Come amava dire, forse con una battuta un po’ sbrigativa, Jacques Maritain: una cosa è la sacra Persona della Chiesa, altra cosa è il suo spesso mediocre personale. Dunque, perché scandalizzarci se si riconosce ,con umiltà e verità, che tutti (a cominciare dal futuro Capo stesso della Chiesa, che per tre volte tradì in pubblico il Maestro), tutti siamo bisognosi di esami di coscienza?

© La Bussola Quotidiana

Monday, January 10, 2011

Ma Messori sta col Papa o col Grande Imam?

Non desidero polemizzare con Vittorio Messori, nutrendo per lui amicizia e stima. Purtroppo però a volte nella polemica si è trascinati nostro malgrado, per un dovere di testimonianza alla verità: così anni fa insorsi per i giudizi (che ritenni non generosi) espressi da Messori su Giovanni Paolo II, subito dopo la sua morte.

E oggi mi sento costretto a farlo per il dovere di verità che abbiamo verso i martiri cristiani che sono stati massacrati anche in questi giorni.

“Amor mi mosse che mi fa parlare”: l’articolo di Vittorio uscito ieri sul Corriere della sera davvero fa un pessimo servizio ai cristiani. Ma soprattutto fa un pessimo servizio alla verità storica.

Lasciamo perdere le discutibilissime escursioni nel VII secolo, sull’invasione araba dell’Egitto e del Nord Africa.

Ho cercato ansiosamente nel testo messoriano almeno una frase che mettesse in rilievo il cuore del problema (come benissimo lo enunciò il Papa a Ratisbona), cioè l’irrisolto rapporto dell’Islam con la violenza, questione certamente nota a Messori, questione che ha orrende ricadute non solo sui cristiani, ma sui rapporti dei musulmani con tutte le altre religioni e civiltà, oltreché su varie questioni sociali (penso alle condizioni delle donne).

Ma purtroppo questa frase non l’ho trovata. Una condanna senza appello si trova nell’articolo, ma non è rivolta contro l’irrisolta commistione fra Islam e violenza.

No. La condanna sembra toccare al “sionismo” (accusato di “violenta intrusione”), sionismo che non c’entra assolutamente niente con l’attentato alla cattedrale cristiana di Alessandria (forse Messori qui intendeva descrivere l’ideologia islamista, ma non sembra dissociarsi da quel giudizio sul sionismo).

Fra i cattivi senza attenuanti Messori cita pure il solito Bush (con gli amerikani). Anche i cristiani sono da lui rappresentati in modo tutt’altro che lusinghiero.

Quello con cui invece l’intellettuale cattolico concorda è il Grande Imam del Cairo, Al Tayyeb, secondo cui l’attentato “non è un attacco ai cristiani, ma all’Egitto intero”.

Ora, questo Ahmed Al Tayyeb è il tipo che ha accusato il Papa di “ingerenza” negli affari interni egiziani quando il Pontefice ha condannato la strage di cristiani alla messa del 1° gennaio.

Questo Grande Imam è anche il tipo che sempre all’indomani della strage, intervistato dal Corriere della sera, di nuovo – come ha notato Ippolito sullo stesso Corriere – “si è sentito in dovere di rimbeccare il Papa che chiedeva protezione per i fedeli in Oriente”, sostenendo testualmente che tale “appello del Pontefice alla difesa dei fedeli può creare malintesi”.

Il Grande Imam è arrivato fino al punto di esigere dal papa “un gesto distensivo verso i musulmani, come se sull’altra sponda del Mediterraneo a essere minacciati fossero i seguaci del Corano”.

Questi rilievi critici sono sempre di Ippolito. E stupisce che non si trovino invece nell’editoriale di Messori uscito ieri. Egli non fa alcun riferimento critico a quelle incredibili dichiarazioni del Grande Imam. Anzi, lo cita per dire che in quella frase (sull’attentato come attacco all’Egitto) “non ha torto”.

Personalmente invece ritengo anche quella una frase molto ambigua.

Par di capire che, secondo Al Tayyeb, l’Islam, anche egiziano, sarebbe una meraviglia e i terroristi sarebbero un corpo estraneo che viene a far traballare questo idilliaco mondo musulmano e lo stato egiziano.

E da cosa sarebbe provocata la violenza di tali terroristi? Ecco la risposta che Messori dà (assai condivisa fra i musulmani) dopo aver avallato la frase dell’Imam:

“Tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l’intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti quasi pari alla Mecca. Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio a un panislamismo che intende demolire le frontiere e i regimi attuali per giungere a un blocco comune e ferreo di fedeli nel Corano. Una sorta di superpotenza che possa sfidare persino gli Stati Uniti, padrini di Israele”.

A chiunque appare evidente che il teorema di Messori non sta in piedi: se il problema fosse davvero il sionismo, perché massacrano i copti che sono cittadini egiziani sempre stati fedeli allo stato egiziano?

Se il problema fosse davvero la fondazione dello stato di Israele, nel 1948, perché da quattordici secoli l’Islam cerca di conquistare e sottomettere i paesi cristiani (sono arrivati fino a Vienna, fino alla Sicilia e fino ai Pirenei, prima di essere respinti)?

E’ noto del resto che certi gruppi islamisti si sentono orfani della Palestina tanto quanto si sentono defraudati dell’Andalusia e magari domani della Sicilia: che facciamo, gliele ridiamo?

Chiedo ancora: perché il genocidio turco degli armeni cristiani (il primo del Novecento) avvenne decenni prima della nascita di Israele?

E perché, infine, i “Fratelli musulmani” esistono dal 1928-1929?

E perché sono riemersi con fanatismo solo negli anni Ottanta anziché nel 1948?

E potrebbe spiegare, Messori, come e perché il regime islamista di Karthoum, in Sudan, per venti anni, dal 1980, ha massacrato i cristiani e gli animisti neri del Sud, provocando una strage di due milioni di vittime?

Glielo dico io: perché rifiutavano l’imposizione della sharia, non perché – migliaia di chilometri lontano da loro – esisteva lo Stato di Israele.

E perché, all’altro capo del mondo, il regime indonesiano ha invaso Timor est e ha massacrato un’enorme porzione della popolazione cristiana di Timor est, senza che nessuno – né Indonesia, né abitanti di Timor est, si fossero mai interessati a Israele e Palestina?

La verità è ben altra. Sentiamola da due storici (peraltro non cattolici). “Per quasi mille anni” ha scritto Bernard Lewis “dal primo sbarco moresco in Spagna al secondo assedio turco di Vienna, l’Europa è stata sotto la costante minaccia dell’Islam”.

Samuel Huntington ha ricordato inoltre che “l’Islam è l’unica civiltà ad aver messo in serio pericolo e per ben due volte, la sopravvivenza dell’Occidente”.

Stante questa duratura utopia imperialistica dell’Islam, dove religione e politica sono una cosa sola, il grande trauma del mondo islamico è stato rappresentato dalla fine dell’Impero Ottomano, dopo la prima guerra mondiale.

Quello è stato il detonatore.

Poi, dalla decolonizzazione, le élites arabe hanno puntato su movimenti politici laici, di ideologia socialista e/o nazionalista.

Questi regimi sono stati i primi ad affossare la possibilità di uno stato palestinese e, con l’ideologia panaraba e antisionista, si sono lanciati in una serie di guerre per l’eliminazione di Israele uscendone a pezzi.

Così i loro regimi illiberali, spesso corrotti e perlopiù fallimentari – per cercare un nemico esterno da additare alle folle fanatizzate – hanno alimentato l’odio anti-israeliano e anti-occidentale, ancor più forte quanto più il nostro modello di vita e di benessere è da quei popoli agognato.

Odio che – dopo la rivoluzione sciita iraniana degli anni Settanta – si è espresso in una rinascita dell’islamismo fondamentalista.

Il vero problema è il mancato appuntamento dei paesi arabi e islamici con la democrazia e il riconoscimento dei diritti dell’uomo. E il mancato appuntamento dell’Islam con il ripudio di ogni violenza.

L’invito del Papa ad Assisi è l’altra faccia di Ratisbona: il tentativo da parte dei cristiani di aiutare chi vuole liberare il sentimento religioso, che si esprime nelle varie religioni, dalla violenza e dall’intolleranza.

Un’ultima nota: il titolo dell’articolo di Messori era “Le radici dell’odio contro i cristiani”.

Ma i cristiani sono stati odiati, perseguitati e massacrati, negli ultimi duecento anni, sotto tutti i regimi e le ideologie. E lo sono tuttora, per esempio in tutti i regimi comunisti.

Dunque la “radice dell’odio” non può essere nell’esistenza di Israele. E Messori lo sa. Allora perché non dirlo? Perché scrivere editoriali di quel genere?

[Antonio Socci su “Libero” dell'8 gennaio 2011]

Friday, December 24, 2010

Thursday, December 23, 2010

Elogio cristiano del Natale consumistico

Natale è alle porte. E ci toccherà sorbirci le solite lagnose recriminazioni moralistiche contro il “Natale consumistico”.

È un uggioso refrain”in cui si sono specializzati molti ecclesiastici, ma anche tanti laici, non credenti, che – per esempio dalle pagine di Repubblica, del Corriere della sera o della Stampa – biasimano il presunto paganesimo della “corsa ai regali” (e lo fanno, ovviamente, mentre i loro stessi giornali vivono di pubblicità e i loro editori prosperano sui consumi).

Oltretutto i “consumi natalizi” sono pure un beneficio per la nostra economia che soffre di un Pil stentato, per cui è irritante vedere gli stessi che scagliano anatemi sul consumismo, strillare poi – il mese dopo – per le aziende che chiudono, per l’economia che ristagna e il deficit che cresce (come pure il debito essendo rapportati al pil).

Dunque mi appello ai parroci: per favore, quest’anno, evitateci queste geremiadi anticonsumistiche.

Perché non c’è cosa più insopportabile (e acristiana) del sentire sacerdoti alla Messa di Natale che – proprio mentre nasce Gesù, il nostro salvatore, la gioia della vita – invece di parlarci di lui, invece di invitarci a rallegrarci, invece di consolare le nostre sofferenze, si mettono a strapazzare i fedeli che si sono scambiati dei doni.

A volte si ha quasi la sgradevole sensazione che a Natale tuonino contro il consumismo perché non hanno nulla da dire su Gesù, perché non si stupiscono più del suo venire al mondo, perché non ne conoscono la meraviglia.

“Expertus potest credere quid sit Jesum diligere”.

Come si può – quando si è sperimentata l’amicizia del Salvatore e se n’è scorta la bellezza ineffabile – mettersi a tuonare contro le luminarie, i pranzi e i regali, invece di parlare di lui?

Non somigliamo a quei farisei che – davanti a ll’uomo misterioso che con un solo gesto guariva un paralitico – si mettevano a polemizzare perché lo aveva fatto di sabato?

Quasi che fosse ovvio e normale che uno potesse stendere la mano e guarire un uomo paralizzato. Si facevano a tal punto violenza da non restare stupiti neanche da un fatto del genere.

E voi sacerdoti di oggi avete da dare la notizia più grande di tutti i tempi, la più commovente, inimmaginabile, consolante, cioè che Dio si fa uomo e viene ad abitare fra noi, che viene a guarirci, a salvarci, avete la notizia che nulla sarà più triste e disperato come prima, e invece di gridarcela, di scoppiare voi stessi in lacrime di letizia e di commozione (perché davvero se non fossimo così tragicamente distratti dovremmo piangerne di gioia), invece di gridarla dai tetti, vi mettete a rompere le scatole sui regali? Quasi indispettiti dalla gioia della gente?

Questa sì che è un’empietà! Oltretutto, se proprio vogliamo essere evangelici, dobbiamo riconoscere che il primo Natale dei regali è stato precisamente quello di duemila anni fa: sono stati i pastori e i Magi a viverlo così.

E il Vangelo li esalta per questa spontanea gratuità. Del resto era un’umile risposta a un immenso dono.

Perché in realtà è Dio stesso che inaugura il “Natale dei regali”. Il “Grande Consumista” è Colui che ci ha regalato il cielo e la terra, l’universo intero, con tutto quello che contiene.

Nessuno ha dissipato e regalato così tanto i suoi beni come quel Dio che ha voluto letteralmente svenarsi per noi.

Natale non è altro che questo: la follia di Dio.

È la sua irraggiungibile umiltà, avendo voluto spogliarsi della sua maestà e della sua gloria per abbassarsi fino a farsi un piccolo bambino povero e potersi donare a noi senza umiliarci, ma anzi mendicando il nostro amore.

Si può immaginare una follia d’amore pari a questa?

Riflettiamoci. C’è un Re così grande, ricco e potente che possiede tutto. E dunque ti regala non solo pietre preziose e perle, ma il mondo intero con tutte le sue meraviglie. Però non gli basta, perché noi siamo insoddisfatti e infelici, e allora vuole donarti di più.

Potrebbe regalarti la felicità (per cos’altro tutti ci agitiamo se non per la felicità?) oppure potrebbe regalarti la bellezza, o la pace del cuore o l’amore o il calore dell’amicizia e potrebbe perfino regalarti tutto questo per l’eternità, senza più la tristezza della fine e della morte.

Ma ha deciso di farti un dono ancora più grande dove tutto questo è contenuto: se stesso, il suo unico e meraviglioso Figlio che letteralmente “è” tutto questo. Infatti Gesù è la vera felicità, la pace, l’amore, la gioia, la vita e lo è per sempre.

E allora come si fa – davanti a un tale Re che ti dona se stesso e tutto il suo regno, senza che tu lo meriti neanche lontanamente – come si fa a non essere strafelici e a non essere mossi spontaneamente, anche noi, a donare?

Ci sono passi bellissimi di Benedetto XVI sul “dono” nell’enciclica “Caritas in veritate”. Egli vede nella cultura del dono addirittura una immensa risorsa sociale.

Ma allora i sacerdoti dall’altare di Natale dovrebbero dire esattamente l’opposto della geremiade contro il consumismo: dovrebbero anzi esortare a donare ancora di più, a donare non solo ad amici, figli o parenti, ma a riempire di doni e di amore anche tutti coloro che sono stati più sfortunati, coloro che vivono in povertà, coloro che soffrono, perché anche loro possano rallegrarsi nel giorno della gioia.

Il papa san Leone Magno, nella sua celebre omelia natalizia, secoli fa, annunciava e quasi gridava: “Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne”.

Vorremmo sentire i parroci o i vescovi che ci ripetono queste parole, che incitano a non fermarsi a pochi regali, a Natale, ma a donare più possibile. A donare perfino se stessi.

E soprattutto a fare a se stessi il regalo più bello: l’amicizia di Cristo.

Mi sembra di sentire qualche amico prete che obietta: “va bene, dici belle cose, ma come si può tacere davanti a chi pensa solo ai regali, alla settimana bianca o alla vacanza alle Maldive o sul Mar Rosso e neanche va alla messa di Natale?”.

Amico sacerdote, perché tu, come loro, pensi che la settimana bianca o le Maldive o il Mar Rosso siano in competizione con il Figlio di Dio che si fa uomo?

Chi ha fatto le maestose montagne e il loro cielo di azzurro purissimo? E chi dà consistenza ai miliardi di cristalli di neve che accecano di luce? E i fondali o i coralli del Mar Rosso? E la luna e le stelle?

“Tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui e tutto in Lui consiste”. E allora come privarsi di lui? Dovresti dire a coloro che si contentano di così poco (una settimana alle Maldive), a coloro che si rassegnano alla settimana bianca, che possono avere molto di più.

Perché a Natale ci si dona colui in cui c’è la bellezza degli oceani e delle montagne innevate, il refrigerio della brezza d’estate, i colori dei boschi d’autunno, la dolcezza dell’amicizia, lo struggimento dell’amore dei figli, l’ardore dell’amore delle madri e perfino il gusto dei frutti succulenti della terra, la purezza dell’acqua e il sapore del vino. In lui c’è il gusto stesso della vita, il senso dell’esistenza.

Così nella Messa ci sono tutte le montagne innevate e i mari più azzurri, tutte le bellezze dell’universo. Non a caso la liturgia coinvolge tutti i cinque sensi nell’adorazione, perché Dio si è fatto carne ed è venuto a salvare tutto l’uomo, è venuto a portargli una felicità che passa anche attraverso i sensi umani, i sentimenti umani. E’ venuto a divinizzare tutto l’uomo.

“Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” afferma sant’Atanasio di Alessandria (De Incarnatione, 54, 3: PG 25, 192).

E chi – ditemi – chi, sapendo tuttociò, può essere così masochista da rifiutare questo stupefacente regalo: essere trasformati in dèi, essere divinizzati, partecipare alla signoria di Dio sull’universo, partecipare alla gioia di Dio?

Antonio Socci, su Libero del 21 dicembre 2010