Thursday, January 03, 2008

I falsi mea culpa dei darwinolatri e i veri evoluzionisti

Leggo sul sito del Corriere della Sera di ieri: “Quando la scienza confessa: ho sbagliato”. Sottotitolo: “Dalle teorie sull’evoluzione alle differenze tra razze, in rete i mea culpa degli studiosi”. L’articolista annuncia una “gamma di dietro front tra il clamoroso e il simpatico”.
Vuoi vedere, ho pensato ingenuamente, che il quotidiano più venduto in Italia, portavoce, insieme a Repubblica, dell’intelligentsia liberal nostrana, sta facendo un’improvvisa retromarcia sul darwinismo (che è cosa ben diversa dalla teoria scientifica dell’evoluzione)? Vuoi vedere, mi sono detto ancora una volta con ingenuità, che qualche “luminare” della scienza, pregiudizialmente e fanaticamente ateo, è rinsavito sulla strada di Damasco e torna sui suoi passi?
Niente di tutto ciò. Più che clamorosa e simpatica, la sostanza dei dietro front si rivela tanto irrilevante che eminentemente confermativa delle panzane messe in giro dai darwinolatri (brutto ma efficace neologismo coniato da Rosa Alberoni ne Il Dio di Michelangelo e la barba di Darwin, il suo ultimo e appassionato saggio).
Nessuna sopresa, quindi. L’articolista e i ‘ravveduti’ cucinano la loro minestrina con gli ingredienti di sempre (tra cui, la selezione naturale e il razzismo genetico), continuano a spacciare per teoria scientifica un’ipotesi che non è mai stata suffragata da dati e fatti e lasciano ad intendere che la comunità degli esperti sia unanimemente orientata.
La chiusura dell’articolo è poi bizzarra, per non dire una chiara presa in giro: “Che lo scienziato possa cambiare idea e sia in grado di ammetterlo, secondo Dawkins, è un bene. Anzi, gli fa onore […]: «Come saremmo inflessibili, rigidi e dogmatici altrimenti»”. Magari fosse così, magari!

[Aggiornamento del 6 gennaio] Più informazione e meno ideologia darwinista nell’articolo che il Giornale ha dedicato allo stesso argomento.

Segnalo infine l’articolo di Francesco Agnoli, Wallace, l’altro Darwin, pubblicato ieri su Avvenire. Non essendo più disponibile il collegamento diretto alla versione online, riporto l’articolo di seguito, anche se un po’ lunghetto.
Wallace, l’altro Darwin,
di Francesco Agnoli

Quando si parla dell’evoluzionismo, si dimenticano spesso di approfondire il ruolo e le idee di Sir Alfred Russel Wallace , il grande naturalista nato nel Galles nel 1823, considerato il padre della biogeografia, di pionieristici studi sull’urang-utan e sull’uccello del paradiso, oltre che coautore della teoria della selezione naturale, insieme a Darwin. È proprio quest’ultimo, nella sua Autobiografia, a raccontare che Wallace gli aveva inviato un suo scritto contenente le sue stesse identiche considerazioni. Giuseppe Scarpelli, nel suo Il cranio di cristallo (Bollati Boringhieri), aggiunge che «il testo di Wallace aveva straordinarie corrispondenze con quello di Darwin, oltre che nel significato generale e nel modo di investigare il problema, anche per quanto riguardava la concatenazione concettuale e la scelta terminologica».
Effettivamente in tutti i testi di biologia, il nome di Wallace compare accanto a quello di Darwin. Anche due studiosi rigorosamente atei, come Watson e Dawkins, citano spesso il nome di Wallace , e il secondo lo considera, insieme a Darwin, il nume tutelare della sua visione ateistica.
Eppure la storia di Wallace è piuttosto diversa, ed è misconosciuta, specialmente in Italia, dove sono stati pubblicati solo alcuni dei suoi scritti, e per lo più ormai moltissimi anni fa. Tra questi occorre ricordare almeno Esiste un’altra vita?, I miracoli e il moderno spiritualismo, L’origine delle razze umane, Il darwinismo applicato all’uomo.
In tutte queste opere, Wallace , che partiva da una visione dell’esistenza atea e scettica, affronta il mistero dell’uomo con estrema curiosità ed apertura, e, deluso dal determinismo materialista dell’epoca, che negava la dimensione dello spirito e della libertà, arriva sino a sperimentare l’evocazione di spiriti, insieme a eminenti scienziati come madame Curie, criminologi materialisti come Lombroso, e scrittori atei come Conan Doyle.
Soprattutto, Wallace indaga e mette in luce l’originalità dell’uomo, il suo non essere del tutto riconducibile a mera materia in evoluzione. Il suo pensiero è caratterizzato dalla convinzione che «l’immane labirinto dell’essere, che vediamo estendersi ovunque attorno a noi, non sia senza un piano» divino, e che non tutto l’uomo sia spiegabile unicamente con la selezione naturale, quasi fosse una «causa onnipotente ».
In questa sua visione Wallace trova l’appoggio di altri evoluzionisti della prima ora, tra cui quello di alcuni intimi amici di Darwin, da Lyell, ad Herschel, ad Asa Gray, il più grande darwinista americano, tutti propensi ad accogliere sì l’evoluzionismo, ma come processo finalizzato, guidato, e non casuale.
Riguardo all’uomo Wallace sottolinea l’unicità della sua pelle, sensibile, morbida e senza peli, delle sue mani, capaci di straordinarie applicazioni, e aggiunge che «nessun principio dell’ereditarietà, neppure la selezione naturale, può dar ragione del superiore sviluppo cerebrale dell’uomo, ma neppure della stazione eretta, degli organi del linguaggio, dell’abilità manuale, della pelle priva di peli» (G. Scarpelli, p. 133).
A tutt’oggi, oltre cento anni dopo, su molti testi di biologia appena un poco seri si possono leggere affermazioni in perfetta armonia con l’opinone di Wallace : «Non si sa con sicurezza quali spinte evolutive hanno favorito l’ingrandimento dell’encefalo »; quanto alla stazione eretta, la locomozione bipede, la pelle glabra e il cervello più grande, propri dell’uomo, e non della scimmia, la domanda è come mai... e «la risposta è che nessuno lo sa» (Audesirk- Byers, Biologia, vol.I, Einaudi, 2003; sulla derivazione del linguaggio umano dal «linguaggio» animale sono invece molti i linguisti a negare la possibilità di tale passaggio; tra questi il celebre Noam Chomsky e quanti invece sottolineano, come già faceva Wallace , l’assoluta originalità fisica della laringe umana rispetto a quella delle varie specie di scimmie).
Wallace , inoltre, metteva in luce altre due constatazioni interessanti per ogni naturalista.
La prima è che la comparsa della vita e dell’uomo sulla Terra sono «eventi assolutamente unici, spiegabili con la posizione privilegiata del nostro pianeta nella galassia e con una complessa e singolare concomitanza di fattori fisici e chimici» (Scarpelli, p. 134): è in sostanza la stessa idea che va oggi sotto il nome di principio antropico, e che viene sostenuta da fisici e astronomi credenti, per la quale sono tante e tali le condizioni necessarie perché si sviluppi la vita sulla Terra, che non possono essere semplicemente frutto del caso.
Per comprendere l’attualità delle idee di Wallace basti citare brevemente quanto scrive un famoso divulgatore scientifico come Franco Prattico, nel suo Dal caos... alla coscienza (Laterza), dopo aver analizzato i grandi punti di domanda della scienza sulla mente, l’intenzionalità, la coscienza dell’uomo: «Bisogna perciò avere il coraggio di dire, a conclusione di questo viaggio nella storia dell’Universo, che ognuno dei concetti che abbiamo così disinvoltamente usati cela un mistero. E che forse il mistero più profondo è proprio la nostra coscienza... »; mentre poco più avanti, riguardo al linguaggio umano, segno evidentissimo della differenza tra uomo e animale, e strumento principe dell’evoluzione culturale, aggiunge: «Eppure, come per la stazione eretta, l’apparizione del linguaggio articolato sembra configurarsi come un dono del 'caso', una coincidenza fortunata poco spiegabile sulla base di una evoluzione lineare e deterministica: una sorta di ‘scherzo’ della natura».
La seconda constatazione assai interessante di Wallace è che l’uomo «ha tolto alla natura quel potere, che essa esercita su tutti gli altri anima-li, di mutare lentamente ma definitivamente la forma e la struttura esterna secondo i cambiamenti del mondo esterno... Egli compie tutto questo per mezzo del solo intelletto, le cui variazioni lo mettono in grado di mantenersi, anche con un corpo immutato, in armonia con l’universo che muta»: ciò significa che l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha necessità di adattarsi materialmente, fisicamente, all’ambiente, perché, essendo dotato dell’intelligenza, è capace di affrontare ogni clima e ogni situazione attraverso la creazione di vestiti, indumenti e strumenti vari. Ciò ne fa, evidentemente, una creatura originale, la più debole e la più inadatta, fisicamente, ma, grazie allo spirito, la più forte, l’unica che si pone di fronte alla natura con capacità di dominarla: il vertice della natura, insomma.
Una simile posizione permetteva a Wallace di non cadere nel razzismo tipicamente vittoriano, in cui invece incapparono molti evoluzionisti, T. Huxley, il «mastino di Darwin», Francis Galton, cugino di Darwin, John Lubbock, allievo di Darwin, e, a tratti, lo stesso Charles Darwin. Mentre il primo, infatti, «cercherà di documentare la presenza di caratteri affini tra uomo di Neanderthal e ottentotti, considerando quest’ultimi come i gradini più bassi della scala delle razze umane», il secondo «si cimenterà in una raccolta di dati statistici allo scopo di quantificare la maggior dignità dell’uomo bianco rispetto al negro» (Scarpelli, p.72).
Wallace invece, rifiutandosi di ridurre l’uomo a materia in evoluzione, da una parte condanna apertamente l’eugenetica, creata dal cugino di Darwin, Francis Galton, e sostenuta da moltissimi evoluzionisti contemporanei, bollandola come una credenza non scientifica, dall’altra sostiene che «la specie umana ha posseduto ab initio l’insieme delle caratteristiche intellettive, etiche, creative che lo contraddistinguono; di conseguenza essa deve essere stata in grado di produrre in alcune situazioni favorevoli, anche in epoche remote, grandi opere artistiche, architettoniche, intellettuali in genere. E dunque i selvaggi odierni, identici a noi anatomicamente e cerebralmente, non vanno considerati come varietà rimaste al palo...» (Scarpelli, p.76). È lo stesso Scarpelli ad aggiungere che il pensiero di Wallace è confermato dai ritrovamenti nel 1879 delle magnifiche pitture rupestri di Altamira e nel 1940 di quelle di Lascaux, entrambe attribuite ai CroMagnon, già 40.000 anni fa provvisti di un volume cerebrale pari al nostro o addirittura superiore.

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