Wednesday, July 25, 2007

Il Dio ‘nobile’ del cristianesimo e altre risposte

Mi capita spesso in questo periodo di prendere in mano La sfida della fede di Vittorio Messori. È il secondo volume di una quadrilogia, gli altri tomi essendo, in ordine di uscita, Pensare la storia, Le cose della vita e Emporio cattolico. Sono tutti una miniera di riflessioni, informazioni e citazioni che qualunque cattolico farebbe bene a gustare prima o poi.
Dal testo citato riporto di seguito alcuni passaggi; aiutano a fare il punto su delle questioni su cui mi sono soffermato di recente. L’indicazione delle pagine si riferisce alla vecchia edizione del libro, pubblicato dalla San Paolo. La ristampa è prevista prossimamente per i tipi della SugarCo.

Leggo la lettera che un convertito inglese, Bryan Houghton, scrisse ad un amico che, stupito, gli chiedeva come mai un uomo intelligente potesse ancora prendere sul serio il cristianesimo. Quanto a credere in Dio, ancora passi: tutti, più o meno, ci crediamo, seppure a modo nostro. Ma in Cristo? In quel complesso di miti orientali che sono i vangeli?
La risposta di Houghton mi sembra da trascrivere. [...] Vediamo.
«In tutte le religioni o irreligioni quell’Essere-non-contingente che chiamiamo Dio gode della sua Onnipotenza, nell’eterna felicità di una perfezione infinita. Dio, beato, si gira eternamente i pollici. Intanto, però, crea esseri contingenti – noi – ai quali distribuisce sofferenza e sventure. Per colmo, si crede che esiga da noi che soffriamo nobilmente, fino al martirio, per l’onore del suo Nome. In questo modo, poiché non esiste nobiltà più alta che la sofferenza sopportata, l’uomo diviene più nobile di Dio. Dio è una sorta di poltrone, magari sadico, che esige dagli altri ciò che non fa egli stesso».
Ne conclude quel convertito inglese: «È dunque qui che risiede la rivelazione fondamentale del cristianesimo, la sua novità sconvolgente e unica: Dio non è un poltrone e un sadico. Non esige dagli altri che sopportino ciò che non è disposto a sopportare egli stesso. In effetti, si è incarnato proprio per fare in quanto uomo ciò che non poteva fare in quanto Dio: soffrire il soffribile. Per questo mi sembra che, se almeno una religione è vera, è il cristianesimo che lo è; esso solo rende Dio più nobile dell’uomo. Noi creature abbiamo il nostro fardello di disgrazie e di sofferenze, ma sappiamo che il Dio creatore questi fardelli li ha portati tutti. È plausibile che una dozzina di popolani galilei abbia inventato questa prospettiva prodigiosa, che è la sola che possa salvare l’onore di Dio?». (pagina 513)

[...] l’ormai vecchio e malato Don Bosco, nel 1886, a due anni dalla morte, si spinse penosamente sino a Barcellona per incontrarvi i molti benefattori spagnoli e per cercare nuovo denaro. Per obbedire all’ordine del Papa, infatti, aveva dovuto caricarsi sulle ormai stanche spalle la raccolta di fondi per costruire la nuova basilica del Sacro Cuore a Termini.
Sulla via del ritorno, il Santo si fermò a Grenoble, dove fu alloggiato nel seminario. Scorgendolo ansante, quasi disfatto, il Superiore gli disse: «La vedo molto sofferente, monsieur l’abbé. Certo, alla sua età, è ben duro un viaggio così: ma nessuno meglio di lei sa quanto santifichi la sofferenza».
Questa la risposta di Don Bosco: «No, signor Rettore, non è così: ciò che santifica non è la sofferenza, ma la pazienza».
Cristianesimo non è affatto amare il dolore: è dargli un senso. Non c’è uomo che, spesso in segreto, non porti la sua croce: convertirsi, per lui, non vuol dire liberarsene, ma accettarla. Negare il dramma della vita, ribellarsi ad esso, significa trasformare quel dramma in tragedia, perché senza significato e senza speranza.

Per continuare con la preziosa sapienza dei santi [...] ecco Bernadette Soubirous. Le chiesero che cosa fosse, per lei, un peccatore. Tutti si aspettavano che rispondesse: «È uno che fa il male». E, invece, questa la risposta della Veggente: «Peccatore è uno che ama il male».
Risposta, a pensarci, profonda e consolante: quell’inferno contro il quale tanto violentemente si ribella il mondo moderno riduce così, e drasticamente, i suoi potenziali ospiti.
Tutti noi – o quasi – “facciamo” del male. Ma quanti, tra di noi, davvero “amano” il male? Forse è vero che, come è stato detto, più che cattivi siamo (tutti quanti) un po’ stupidi. Senza togliere nulla alla gravità del peccato, alla necessità di contrastarlo ogni giorno in noi. Bernadette, con la sua intuizione – che è propria dei santi – di che cosa sia davvero il vangelo, ci rassicura che non tanto il praticare quanto amare il male è ciò che può davvero tagliarci fuori (e per nostra volontà stessa) dalla Misericordia. (pp. 455-456)

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