Ieri, il Giornale ha pubblicato le parti salienti de ‘La chance d'Israele’ (reintitolato Il Rabbi preveggente sacrificato dagli integralisti), di Avraham B. Yehoshua. Si tratta di uno dei contributi dedicati a Gesù nell’ultimo numero della rivista Liberal, in uscita oggi in edicola.
Ho trovato l’articolo in questione interessante poiché, per quanto mi risulta, è esemplificativo di ciò che qualsiasi ebreo pensa del Nazareno. Proviamo a valutare la ragionevolezza di queste tesi.
L’autore inizia a parlare di Gesù dicendo: “Personaggio di grande rilievo storico, lo considero uno dei profeti o dei rabbini più famosi di Israele”. Yehoshua inserisce la predicazione di Gesù all’interno di un riforma dell’identità ebraica, vede il Nazareno come un Rabbi che ‘previde’ e si sforzò di evitare al suo popolo i pericoli mortali derivanti dallo scontro con l’autorità romana. Per lo scrittore (e per gli ebrei in senso lato), il messaggio e la vita di Gesù si sostanziano in “pietà e amore per i poveri e gli oppressi”, in “maggiore sensibilità nei confronti dei temi sociali”. Ora, ridurre la predicazione di Gesù ad una riforma interna dell’ebraismo nel senso accennato equivale ad ignorare i contenuti di quella predicazione.
Consideriamo il nocciolo degli insegnamenti di Gesù così come emergono dai Vangeli. Insieme al comandamento della carità verso il prossimo, vi troviamo l’insegnamento che nel prossimo c’è Lui stesso; che Dio ama gli uomini in tutto quello che sono e vuole tutti salvi; vi troviamo l’insegnamento per cui non possiamo arrivare al Padre se non passando da Gesù; c’è la promessa della vita eterna per chi fa la volontà di Dio; c’è la promessa della risurrezione in corpo e anima alla fine dei tempi. Inutile dire che, in quanto estranei alla mentalità ebraica, nessun uomo nato nella Palestina di allora avrebbe potuto elaborare insegnamenti e concetti di quel genere. Sulla base di questa considerazione possiamo riconoscere che Gesù diceva cose ... da ‘pazzi’!
Torniamo a Yehoshua. Dopo aver spiegato i termini dello scontro tra ebrei e romani, e una volta individuata la missione scelta da Gesù alla luce di questo scontro, l’intellettuale ebreo pone la domanda chiave: “Che bisogno aveva il Nazareno, nel quadro di una riforma interna ebraica, di autoproclamarsi Messia? Con questo proclama non si spinse troppo lontano nella sua sfida alle istituzioni religiose?”. Domanda più che opportuna! E come Yehoshua risolve la questione? Semplicemente non la risolve. Dice solo che “Gesù, novello Messia, non voleva solo cambiare o rendere più moderata l’identità ebraica - basata sulla stretta osservanza delle leggi della Torah e dei precetti - ma sovvertirla completamente, ribaltarla”. L’autore non tenta di interpretare quali fossero le intenzioni di Gesù, il suo ‘cambio di passo’. A mio parere, c’è solo una risposta, logica e implicita nel discorso di Yehoshua, che spiega il perché Gesù si fosse proclamato Messia, Salvatore, Dio: Gesù era un pazzo esaltato, oltre che un bestemmiatore in base alle leggi ebraiche. Ma se è così, perché lo scrittore definisce Gesù un grande personaggio della storia, un grande profeta e maestro? Questa stessa domanda vale anche per i mussulmani. C’è da chiedersi in che modo ebrei e mussulmani conciliano la grandezza di Gesù con l’‘insensatezza’ del suo proclamarsi Messia.
Un giudizio complessivo sulla figura di Gesù non può infatti trascurare la sua autoproclamata divinità. Nei Vangeli sono moltissime le frasi e le azioni di Gesù in cui Egli rivela di essere Dio. Furono proprio queste parole e queste azioni che lasciarono inorriditi i leaders religiosi ebraici del tempo e che fecero scattare su di lui le accuse più gravi. Facciamo qualche esempio.
1. “Prima che Abramo fosse, IO SONO” (Giovanni 8, 58). Ricordiamo che, per gli ebrei, il nome sacro e impronunciabile di Dio, il cosiddetto sacro tetragramma (JHWH), corrisponde, fra le sue varie traduzioni, alla prima persona del verbo ‘essere’. Pronunciando quella frase, Gesù avoca a se stesso nome, natura e caratteristiche divini. Si trattava chiaramente di una frase assurda e inaccettabile per un ebreo; da qui il tentativo di lapidare Gesù.
2. Più di una volta nella sua predicazione, Gesù, rivolgendosi a uomini, donne, sani e malati, afferma; “I peccati ti sono perdonati”. Nella religione ebraica, solo Dio può perdonare i peccati, e questo venne tempestivamente fatto notare a Gesù dai suoi ascoltatori.
3. I riferimenti di Gesù alla Sua persona come Via, Verità e Vita. Sono questi i riferimenti che un grande e ‘semplice’ profeta, un rabbino darebbe di se stesso?
4. Gesù si esprimeva al modo di uno che ha autorità, di uno che impartisce un proprio insegnamento (“In verità in verità vi dico”). Al riguardo, è opportuno ricordare che fu Gesù stesso ad introdurre il secondo più importante comandamento, quello della carità.
5. L'appellativo con cui Gesù si rivolge a Dio: Abbà, cioè, papà, paparino. Per la sensibilità ebraica, si tratta di un modo semplicemente inconcepibile di relazionarsi al Padre eterno. Quale profeta avrebbe potuto spingersi a tanto?
Lo ripetiamo: attenendoci alle considerazioni di Yehoshua, Gesù sarebbe uscito fuori di senno. Alla domanda, “che bisogno aveva il Nazareno di autoproclamarsi Messia?”, dovrebbe conseguire un’altra domanda: perché lo scrittore ebreo, e con lui i suoi correligionari, escludono, alla maniera dei razionalisti atei di oggi, l’unica ipotesi sensata sull’identità di Gesù, e cioè che Lui fosse veramente Dio fatto uomo? Non converrebbe prendere in considerazione questa possibilità solo per amor di ragionamento? al solo fine di rendere comprensibili le parole del Nazareno? Alla mancanza di fede nella divinità di Gesù, così come alla conseguente incapacità di mettere in discussione la propria identità religiosa (e professionale), si può sempre pensare in un secondo momento, mi pare!
Yehoshua conclude l’articolo spiegando perché gli ebrei decisero la morte di Gesù. Per renderlo innocuo, non sarebbe stato sufficiente dichiararlo fuori di testa. C’era un problema serio e nasceva dal fatto che Gesù aveva un forte séguito nella folla, fra i poveri, i semplici e i malati. La festosa accoglienza che gli venne tributata al suo ingresso in Gerusalemme, in occasione della festività della Pasqua ebraica, dimostrava che quell’uomo era molto pericoloso. La sua buona Novella, infatti, metteva in pericolo il potere delle autorità religiose di fronte al popolo. Yehoshua scrive: “Non solo le istituzioni ma anche circoli più ampi del mondo ebraico temettero che la sua comparsa (come Messia, NdR) non preannunciasse unicamente un cambiamento ma una potenziale rivoluzione”. Poi, la conclusione: “ [...] poiché gli ebrei non potevano sventare da soli la minaccia rappresentata da Gesù, si rivolsero alle autorità romane [...], perché li aiutassero a proteggere se stessi dal loro «Messia». Ed è questa l’ironia della sorte: Gesù, ebreo che cercava di evitare la sciagurata rivolta dei suoi connazionali contro il potere di Roma, fu consegnato a quel potere dai «futuri rivoltosi» e crocefisso come un sovversivo, un ribelle contro l’impero”. In altre parole, Gesù, in base alla spiegazione di Yehoshua, appare come un poveraccio, come la vittima di un paradosso storico e politico, come un ingenuo stritolato da un ingranaggio di cui ignorava i meccanismi. Poco scaltro, questo Gesù: grande conoscitore delle cose di Dio, ma molto lontano dalle cose di questo mondo, sembra suggerire lo scrittore.
Sono consapevole di aver buttato giù queste riflessioni in modo sbrigativo. La questione è molto più complessa dei termini in cui l’ha affrontata Yehoshua e del modo in cui io stesso l’ho commentata.
In chiusura, spero che nessun eventuale lettore di questo post, ebreo o meno, prenda i miei commenti come offensivi. Siamo abituati a sentire accuse di razzismo ogniqualvolta si rivolge la ben che minima osservazione critica verso gli ebrei. A scanso di equivoci, ribadisco ciò che ho scritto in altre parti, e cioè che considero gli ebrei come dei fratelli. Fatto questo però, chiarisco che farei spallucce se mi si tacciasse di antisemitismo. E questo sia perché non sono antisemita, sia perché ne ho le scatole piene della politically correctness, di questa gabbia che vuol imprigionare e uniformare i pensieri di tutti. Preferisco pormi e porre domande, lasciando che siano il confronto, la riflessione e la preghiera ad aiutarmi a trovare qualche risposta.
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