Una scelta lineare nella tradizione del Magistero
Vittorio Messori
Corriere della Sera, 11 luglio 2007
Anche se qualche giornalista va sfruculiando esponenti di comunità non cattoliche eccitandoli alla polemica, è difficile trovare elementi di novità o addirittura di scandalo nelle quindici paginette. Sono quelle del documento della Congregazione per la fede intitolato “Risposte ai quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”.
Già sette anni fa, in un altro documento ben altrimenti corposo, la Dominus Jesus, le stesse cose erano state ribadite. Ribadite, dico, in quanto neppure allora si trattava di novità, bensì di insegnamenti costanti del Magistero, riuniti un solo testo all’insegna del repetita juvant.
Nel documento attuale si punta la lente, ingrandendola, su un’espressione usata dal Vaticano II e sulla quale si sono versati fiumi di inchiostro. Nella Costituzione conciliare Lumen Gentium, cioè, si afferma che la vera Chiesa che Cristo ha fondato «subsistit in Catholica Ecclesia». I Padri del Vaticano II, dunque, non hanno usato il verbo est, è, ma hanno preferito quel “sussiste” che molti teologi hanno letto come una attenuazione delle pretese romane, quasi che la vera Chiesa voluta da Gesù “sussistesse” anche in altre comunità. E’ una interpretazione che è stata più volte respinta dal Magistero e che ora viene riaffrontata con ampiezza. Quel verbo, si dice, è stato scelto non per diminuire l’unicità della Catholica ma per ribadire che elementi di verità possono sopravvivere altrove, restando però chiaro che la pienezza della verità e dell’efficacia del Cristo vivono nella gerarchia che ha il Romano Pontefice al vertice. Una spiegazione classica ma che meritava di essere ribadita, visto che qualche teologo su quel subsistit aveva costruito castelli “ecumenici” che ora vengono dichiarati di carta. Un déja vu anche nella distinzione tra le antiche comunità orientali che hanno diritto, pur se separate da Roma, ad essere dette “chiese”, perché hanno conservato la successione apostolica (e, dunque, il sacerdozio, l’eucaristia e gli altri sacramenti) e i gruppi non solo scismatici ma eretici nati dalla Riforma protestante, che possono essere indicate solo come “comunità cristiane”.
Un documento, insomma, che è solo un altro tassello della strategia ratzingeriana di sempre: ammonire che il Vaticano II non è stato una rottura con la tradizione ma uno sviluppo e un approfondimento di una fede che è rimasta la stessa, una fede che non conosce distinzioni tra“pre” e “post-conciliare”.
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