Ha trasformato la sua storia in una questione politica, ma la sua esperienza non è un valore universale
Piergiorgio Welby sta diventando sempre più un simbolo astratto, lo strumento improprio di una guerra culturale e ideologica, non il protagonista di una struggente storia di sofferenza personale. La confusione è alimentata dal fatto di essere un militante radicale, e dunque il suo dare corpo, il proprio corpo, alla battaglia sull’eutanasia, è anche un effetto consapevolmente cercato. Invece forse sarebbe necessario separare quanto nella sua situazione è legato alla irriducibile unicità di ogni destino individuale, e quanto si può ricondurre a criteri generali e a questioni di diritto più ampie; in altre parole, un conto è tentare di risolvere il problema umano del malato Welby, un conto stabilire che il suo caso ha connotazioni talmente tipiche e di interesse generale da richiedere una soluzione legislativa su misura.
Nel 2002 Welby, da tempo affetto da sclerosi laterale amiotrofica, scriveva: «Poniamo il caso che un medico vi dicesse: Mi dispiace, lei ha una malattia incurabile e le resta poco da vivere. A questo punto dovrò farle un buco in pancia (gastrostomia) per poterla alimentare. Dovrò praticarle un foro nel collo (tracheostomia) per permetterle di respirare (...) In queste condizioni, tuttavia, potrà vivere ancora qualche anno o più. E poniamo poi il caso di un altro medico che invece vi dicesse: Mi dispiace, lei ha una malattia incurabile e le resta poco da vivere, però noi potremmo ridurre le sue sofferenze al minimo e, su sua richiesta, procurarle una morte indolore. Voi quale dei due medici scegliereste?».
La domanda andrebbe articolata in maniera un po’ diversa. Per la legge italiana il medico non può procurare attivamente la morte, ma il paziente può rifiutare la cura, anche se il suo rifiuto crea dilemmi etici laceranti. Chi ritiene che vivere appesi ai tubi sia una menomazione intollerabile, ha tutto il diritto di dire no pur sapendo di andare incontro alla morte, e optare quindi per cure palliative, per forme di sedazione che attutiscano la sofferenza. Quando però Welby si è trovato davanti alla tragica scelta, contrariamente a quanto aveva scritto, ha deciso per la respirazione artificiale. Secondo il suo racconto, a cui crediamo pienamente, è stata la moglie a non rispettare le sue raccomandazioni. Questo però non risolve il problema, anzi ne apre altri: se lasciar morire un malato che soffre è un atto di pietà, come mai l’istinto amoroso porta a disobbedire a qualcuno pur di prolungargli l’esistenza? E perché se nemmeno una persona cara ha questo coraggio, lo deve avere un medico il cui scopo professionale è salvare vite umane? Francesco D’Agostino chiedeva, in un dibattito, quale dottore rinuncerebbe a prestare ogni cura possibile a chi abbia compiuto un tentativo di suicidio, solo perché ha in tasca una lettera in cui esprime al di là di ogni dubbio la propria volontà di morire.
Ancora oggi, secondo quel che hanno detto gli specialisti che ad ottobre si sono riuniti nella sede del Partito radicale per discutere il caso Welby, staccare quella spina si può. Se il problema fosse soltanto interrompere la respirazione artificiale e lenire le sofferenze che ne seguono, la soluzione si troverebbe, come ha affermato anche il presidente dell’Ordine dei medici, Amedeo Bianco. Ma Welby non vuole questo. La sua richiesta è un’altra: «È mia ferma decisione rinunciare alla ventilazione polmonare assistita. Staccare la spina mi porterebbe ad una agonia lunga e dolorosa. Anche una sedazione protratta nel tempo non mi garantirebbe una morte immediata senza dolore. Chiedo: è possibile che mi sia somministrata una sedazione terminale che mi permetta di poter staccare la spina senza dover soffrire?». Welby non chiede un accompagnamento medico verso una fine il più possibile priva di sofferenze, ma una sedazione terminale con effetti immediati, cioè un suicidio di stato.
Emanuele Severino sostiene che esiste una grave disparità tra chi può darsi la morte autonomamente e chi invece non può farlo, e che il suicidio assistito servirebbe soltanto a ristabilire l’equilibrio. Dimentica che, se la legge non punisce più chi tenta il suicidio, non è ancora arrivata a promuoverlo, e che una legge interiore, non scritta (possiamo chiamarla naturale?) ci spinge a contrastare l’aspirante suicida, fino a salvargli la vita suo malgrado. L’equivalenza, poi, si stabilirebbe solo se si prescrivesse per legge un aiuto statale per chiunque, causa incapacità pratica o mancanza di coraggio, desideri morire e non ce la faccia. Con questa logica si potrebbe decidere che chi esprime con assoluta chiarezza la propria volontà di buttarsi dal balcone o infilare la testa nel forno vada assistito da un pubblico ufficiale. Perché un impedimento di ordine psicologico deve avere meno peso di uno di ordine fisico? E perché non ammettere l’eutanasia anche per le sofferenze psichiche, come in Belgio? Una volta che lo Stato entra nella delicata questione, è giusto che fornisca assistenza a chiunque ne senta il bisogno, senza discriminazioni.
Il caso Welby può valere come una sollecitazione a occuparsi dei problemi connessi con la dignità della fine, dalla necessità di incrementare il ricorso alle cure palliative a quella di evitare l’accanimento terapeutico, e il presidente Napolitano ha fatto bene a non lasciare cadere nel silenzio la sua lettera. Ma in nessun modo può diventare un caso esemplare su cui costruire una legge, così come non lo possono diventare le mille storie di sofferenza personale, diversissime tra loro, di tanti malati che avrebbero qualcosa da dire sulla situazione della sanità italiana, ma che nessuno interroga.
Eugenia Roccella (il Giornale)
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