Da Libero del 26 ottobre 2008.
Messori racconta: «La fede non è per cretini», intervista a Vittorio Messori di Caterina Maniaci
Raccontare di aver frequentato una scuola dura e seria, dunque di non essere uno sprovveduto o un ingenuo, di aver avuto una Rivelazione folgorante, di aver rinunciato a carriere brillanti, compresa quella di “libertino”, di aver speso la vita per rendere ragione della fede, di considerare la Chiesa (...) «la propria casa» e di aver trovato, nell'obbedienza e nel seguire l'ortodossia, la vera libertà.
Questo fa Vittorio Messori nel libro-intervista appena uscito, prenotato dai librai in un numero molto alto di copie e scritto insieme al vaticanista e saggista Andrea Tornielli. Il titolo del libro è esplicito: “Perché credo” (edizioni Piemme). Messori parla della sua fede in un mondo in cui tutto ciò è considerato politically incorrect, inopportuno, inaccettabile, fastidioso. Ma quest'uomo ha vissuto tutta la vita, e la sua carriera da scrittore, proprio nel segno della controtendenza, a partire dal folgorante inizio con “Ipotesi su Gesù”, a metà degli anni Settanta. Un successo editoriale senza precedenti - e non solo in Italia - tanto che ancora oggi questo libro vende venti-trentamila copie l'anno. Senza contare che Messori è l'unico giornalista della storia ad aver scritto un libro-intervista con un Papa, Giovanni Paolo II e un altro con colui che ne sarebbe diventato il successore, l'allora cardinale Ratzinger. E ora, in questo “Perché credo“, racconta come è avvenuto l'incontro che gli ha «di colpo, in modo imprevisto cambiato la testa». Nato in una famiglia emiliana anticlericale, cresciuto nella scuola razionalista torinese, allevato come pupillo dei grandi maestri del laicismo come Bobbio e Galante Garrone, nell'estate 1964, questo laureando di belle speranze, agnostico, indifferente alle questioni religiose, che passa il suo tempo tra studio, lavoro come telefonista notturno e la caccia a quante più donne possibile (ha un taccuino pieno zeppo di nomi e numeri di telefono) viene “sconvolto” da un fatto imprevedibile e imprevisto: incappa nel Cristo. E tutto, di colpo, cambia.
Perché proprio oggi ha deciso di parlare di sé in questo modo tanto aperto, della sua conversione, dopo tanti anni di - chiamiamola così - reticenza?
«Ho cercato, in tutta la mia vita e in tutti i miei libri, di dimostrare che la Speranza cristiana esiste, che è ragionevole crederlo e che il credente non è un credulo, né tanto meno un cretino. Oggi sono in tanti a sforzarsi di convincerci che non si può essere cristiani usando la ragione. Il cristiano, secondo loro, è uno che crede nei miti, nelle favole: insomma, è un cretino. Così dice, esplicitamente, uno di questi polemisti, naturalmente (come spesso capita) un ex-seminarista, stavolta piemontese, passato dalla teologia alla matematica. Perciò ho pensato fosse opportuno opporre a queste posizioni, per quanto conta, la mia esperienza».
In tutto questo c'entra anche la sua formazione scolastica e universitaria?
«Per molto tempo non ho voluto accettare questa sorta di “denudamento” intimo. In effetti, le scuole di Torino che mi hanno formato mi hanno insegnato a tenere per me quel privato che sarebbe la religione. Alla fine, se mi sono deciso, è per mostrare, con tutta umiltà e insieme convinzione, che si può essere credenti senza rinnegare la ragione. C'è una sorta di melma che sta montando, ormai da tempo, unanime nel volere convincerci che un uomo moderno, intelligente, non può accettare il Vangelo. Quindi ho accolto la proposta adesso, anche se con fatica e magari con un poco di sofferenza, avendo ormai alle spalle, spero, una certa credibilità professionale e quindi al sicuro da sospetti di creduloneria o tentazioni misticheggianti».
Tenendo presente che da anni, nei primi posti in classifica dei best-sellers, ci sono gli Augias, gli Scalfari, gli Odifreddi, i Dan Brown, insomma, tutti quelli che passano la vita a dimostrare che o si è uomo di cultura e di pensiero o sei credente, mai le due cose insieme…
«Appunto per questo mi sono deciso a “uscire allo scoperto” per mostrare, come ho fatto del resto in una ventina di libri precedenti, che non è così. Per tornare proprio a quell'“Ipotesi su Gesù” che ha dato il via a tutto, i pochi, anche clericali, che sapevano che lavoravo a questo libro, hanno cercato di dissuadermi. In una certa Chiesa post-conciliare era abbandonata l'apologetica. Che è, in realtà, il necessario tentativo di far partecipare la ragione alla fede. La mia, di apologetica, è sempre stata lontana da invettive, lamenti, polemiche basate sui sentimenti feriti o lagne del genere, ho cercato infatti di renderla solida, non abbandonando mai sia la ragione che i fatti concreti».
I suoi primi editori, i salesiani della Sei, erano certi che “Ipotesi su Gesù” sarebbe stato un flop editoriale E invece…
«Invece, quel libricino, stampato in meno di tremila copie, tenuto in un cassetto per più di un anno da quei religiosi perplessi, in pochissimo tempo ha superato il milione di copie in Italia e le trenta, quaranta traduzioni all'estero, dimostrando che c'era una domanda fortissima per la quale non esisteva un'offerta adeguata. E ancora oggi, a trentadue anni dall'uscita, continua ad essere ristampato».
Non c'è il rischio, ora, che lei venga trasformato in una sorta di “santino” , di icona del “buon cristiano”?
«Non credo proprio che sia possibile. In ogni caso, spero proprio di no ! Sono refrattario a tutto ciò che odora di “santa edificazione”, di buoni sentimenti e così via. Persuaso, come sono, che la teoria diventa più convincente se incarnata in una esistenza, mi sono deciso a raccontare la mia, ma tutta calata nella concretezza di uomo che si è dovuto arrendere al Vangelo, che ha cercato di sperimentarlo, e adesso ne trae il bilancio.
Mettendo però bene in chiaro il fatto che io non solo non colloco me stesso tra le ragioni per credere, ma dico: credete, se volete alla mia testimonianza, e non guardate troppo alla scarsa coerenza del testimone. Mi è stato dato di capire, di colpo, dov'è la Verità, cerco di presentarla, ma io stesso per primo molto spesso non ce la faccio a viverla. Indico un ideale di cui sono convinto sino in fondo, ma confesso che io pure ne sono spesso lontano».
Ci spiega, se mai è possibile, quel momento che ha coinciso con la sua conversione?
«Un'esperienza mistica è per definizione ineffabile e quindi non descrivibile. In ogni caso: così come, purtroppo, non sono mai stato, anche dopo quell'evento, un cristiano esemplare, così non sono mai stato un temperamento mistico. Anzi. Sono un emiliano terragno. Mi piacciono le donne, specialmente quelle prosperose, mi piace il cibo succulento, mi piace la libertà di dire e fare, mi piacerebbe insomma la vita con regole che io stesso mi pongo. Se seguissi la mia natura istintiva, sarei non un buon cristiano ma un buon pagano. In ogni caso sono agli antipodi della tipologia del mistico e dell'asceta».
E in quell'estate del '64, cosa è successo?
«Per un paio di mesi, in quella lontana e torrida estate del '64, sono stato “immerso” in una esperienza mistica che non avrei mai immaginato, che non avevo conosciuto prima né ho mai più conosciuto dopo. Ma quelle poche settimane sono bastate per sempre. È stato come cadere in un “buco” di luce: ne sono riemerso con la testa completamente cambiata. Con la chiarezza di aver visto la Verità, con tutta la sua forza ed evidenza. Tanto che oggi ( e lo dico con umiltà, anzi un po' spaventato io stesso) se mi chiedessero di abiurare la fede puntandomi una pistola alla tempia, non potrei farlo. Non per eroismo, non per desiderio di martirio, ma semplicemente perché sono inchiodato dall'evidenza che, come racconto in questo mio ultimo libro “Perché credo”, mi è stata mostrata senza che lo aspettassi o che lo meritassi».
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