Per quanto mi riguarda, ho conosciuto l’Opus Dei proprio grazie ad un libro, ma non si tratta de Il Codice da Vinci di Dan Brown, bensì della splendida indagine che lo stesso Vittorio Messori aveva dedicato alla creatura di san Josemaria Escrivà nel 1994 (a lato la copertina).
Lessi quel libro nel 2007 e dal settembre di quell’anno frequento i ritiri mensili dell’Opera. Da allora, come sospettavo, del monaco Silas non ho visto neanche l’ombra. Ho trovato invece gente normalissima e seria. Tra laici e sacerdoti, ho conosciuto solo cattolici in perfetta sintonia col Magistero di Santa Romana Chiesa.
E l'Opus Dei ringrazia Dan Brown
Gli ordini, le congregazioni, i movimenti religiosi sono nati lentamente, talvolta faticosamente, partendo da intuizioni passate attraverso vicende complesse. Non così per l’Opus Dei, della cui nascita si può indicare addirittura l’ora, visto che festeggerà gli ottant’anni tra un paio di giorni, a mezzogiorno. In effetti, questo quanto avvenne, secondo una pubblicazione ufficiale: «Il 2 ottobre 1928, festa degli Angeli Custodi, don Josemaría Escrivà de Balaguer partecipava a un ritiro spirituale a Madrid. Era nella sua stanza mentre stava riordinando una serie di appunti, quando successe Qualcosa, un’ispirazione divina irruppe nella sua anima. Vide l’Opus Dei. Fu un momento di grazia, come raccontò: “Ricevetti l’illuminazione su tutta l’Opera, mentre leggevo quelle carte. Commosso, mi inginocchiai, resi grazie al Signore, e ricordo il suono delle campane del mezzogiorno della parrocchia di Nostra Signora degli Angeli”. “Vidi” : è questo il termine che sempre usò per descrivere quel momento»
E’ da questo inizio carismatico che trae origine, tra l’altro, il nome, che suscitò resistenze anche nella Chiesa, dove molti lo consideravano segno di megalomania. Mentre voleva, al contrario, essere testimonianza di umiltà. Opus Dei, “Opera di Dio“ in quanto pensata, ispirata, voluta da Lui stesso, progetto celeste che fu affidato non a chi si fosse segnalato per meriti e per santità ma a un pretino di 26 anni che stava ancora completando la formazione. Non caso, don Josemarìa ripeté sempre di essere «un fondatore senza fondamento», di non avere avuto alcuna intenzione di creare una simile opera, di non immaginarla neppure, ma di esservi stato costretto da un comando divino. Da qui, peraltro, anche la convinzione che, non nascendo da un progetto umano, l’istituzione non avrà fine, se non al ritorno del Cristo. Una convinzione che viene giustificata anche dall’obiettivo spirituale: la santificazione attraverso il lavoro ordinario. E poiché, ripeteva il sacerdote aragonese, sempre gli uomini lavoreranno, sempre ci sarà bisogno di chi li aiuti a dare un significato soprannaturale alla fatica quotidiana.
Come se la passa la mitica Obra a ottant’anni esatti dall’enigmatico inizio? Assai bene, almeno a viste umane. Il «fondatore» (le virgolette, come abbiamo visto, sono d’obbligo) è stato iscritto nell’elenco dei santi. Cosa che, nella prospettiva di fede, è decisiva: nessuno nella Chiesa, può più discutere l’autenticità del carisma di san de Balaguer; nessuno –se non sfidando la Chiesa stessa– può mettere in dubbio che l’istituzione sia benemerita per la cattolicità intera. Di più : quasi per ribadire la fiducia, è in corso, con buone prospettive, il processo di beatificazione del primo successore di Escrivà, don Alvaro del Portillo.
Ma quest’anno, alla ricorrenza degli otto decenni da quel mattino madrileno, si è aggiunto un’altro anniversario: un quarto di secolo dell’erezione dell’Opus Dei a prima (e sinora unica) Prelatura Personale. Una sorta, cioè, di diocesi senza un territorio definito ma vasto quanto il mondo intero e “popolato“ dai membri dell’istituzione che hanno, così, una sorta di doppia cittadinanza: quella della diocesi di residenza e quella dell’Opera, per quanto riguarda la formazione spirituale. Un riconoscimento decisivo, anche questo, per ottenere il quale il «fondatore» lottò per tutta la vita.
Grazie non solo alla benevolenza di due papi particolarmente amici come gli ultimi due ma , soprattutto, grazie all’impegno degli associati (sacerdoti, numerari, soprannumerari, aggregati: i laici sono il 98 per cento) l’Opus Dei non ha conosciuto né lo sbandamento teologico né l’emorragia postconciliare di tante altre realtà ecclesiali. Non solo non ha subito l’uscita di un numero significativo di membri, ma ne ha aumentato il numero, con il suo ritmo lento,silenzioso, ma costante: si è ormai ad 85.000, in tutti i continenti, divisi in modo quasi eguale tra uomini e donne. La caduta del comunismo non ha significato, per la Chiesa in generale, la ripresa che molti si attendevano: decenni di ateismo di Stato hanno devastato popoli interi. Eppure, in questa situazione difficile, l’Opera è quella che ha forse raccolto maggior frutto, mettendo radici salde anche all’Est, Russia compresa.
Nell’attivo di bilancio c’è poi, paradossalmente, lo tsunami Codice da Vinci, libro e film. Entrambi prodotti spazzatura, nati dalla furbizia commerciale di un americano che, però, conosceva tanto bene l’Opus Dei - incrocio per lui di trame omicide - da mettere in campo un suo “monaco”, con tanto di tunica e cappuccio. Ignorando, o fingendo di ignorare, che nell’Opera non ci sono monaci e che l’idea di un numerario o un soprannumerario in saio (un Joaquìm Navarro Valls o un Ettore Bernabei, ad esempio) provoca tra i fedeli non sai se più ilarità o sconcerto. Sta di fatto che, pur senza arrivare al giovane che nei giorni scorsi ha accoltellato un prete dopo avere visto il film alla televisione, le fantasie di Dan Brown sembravano avere inflitto alla istituzione un irreparabile danno d’immagine. E’ successo il contrario, tanto che nelle facoltà americane di giornalismo si studia con ammirazione la strategia dell’Opus Dei: approfittare della vampata di interesse non per protestare o denunciare, bensì per lanciare una campagna mondiale di informazione che presentasse la vera creatura di san Josemarìa. Risultato: un aumento del prestigio per l’elegante understatement, ma anche un’impennata del numero dei membri. Insomma, quasi un «se la conosci, non la eviti». Come ha commentato un dirigente (sorridente, naturalmente, e con la cravatta “giusta“, com’è nello stile di viale Buozzi, ai Parioli, sede centrale dell’Opera): «I furbetti passano. I santi restano».
Oltre all’indagine a firma dello stesso Vittorio Messori, pubblicata per i tipi della Oscar Mondadori nel 2002, consiglio l’inchiesta del giornalista francese Patrice De Plunkett, pubblicata nel gennaio 2008 dalla casa editrice torinese Lindau.
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