L’alleanza fra pacifisti e tiranni, di Francesco Carella (pubblicato su Libero del 20 luglio 2006)
Tanto vale dirlo subito: i pacifisti amano le dittature e odiano le democrazie. Non si tratta di una provocazione, ma di una delle costanti meno nobili della storia del Novecento.
Quel che accade in queste ore, con i pacifisti che negano a Israele il diritto a difendersi dagli attacchi di Hezbollah, è solo l’ultimo episodio di una catena di errori lunga quasi un secolo. Infatti, che si tratti di Hitler o di Stalin, di Pol Pot o di Saddam Hussein, di Hamas o di Ahmadinejad, poco importa. La parte dell’aggressore e del guerrafondaio, per i “cultori della pace”, spetta d’ufficio alle democrazie.
Oggi, appunto, tocca a Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente. Ma la lista degli errori – intenzionali o inconsapevoli – del movimento pacifista organizzato è davvero lunga. Sfogliamone qualche pagina, prima di cercare di mettere a fuoco le ragioni profonde che sottendono comportamenti tanto irresponsabili.
A tal proposito, nell’archivio della memoria c’è solo l’imbarazzo della scelta. Lo storico canadese Alvin Finkel, in un libro uscito pochi mesi fa (“Il Nemico Comune”, Fazi Editore, pagg. 257, euro 19,5) documenta, attraverso le minute delle riunioni di Gabinetto, il modo in cui il premier britannico Neville Chamberlain ha utilizzato, nel settembre 1938, gli umori della pubblica opinione pacifista per raggiungere, in chiave antisovietica, un accordo con Hitler sul destino della regione dei Sudati.
Del resto, è cosa nota che molte furono le manifestazioni di giubilo organizzate sia in Europa che negli Stati Uniti, dopo la firma del famigerato Patto di Monaco.
Come finì, sarebbe inutile ricordarlo, tanto le ferite del nazismo dolgono ancora oggi. Ma, purtroppo, non finisce qui.
Tutti ricordano i cortei imponenti per richiamare l’attenzione del mondo sulle vittime dei bombardamenti americani in Vietnam e in Cambogia, ma nessuno ricorda un solo corteo di solidarietà con i boat-people in fuga dal Vietnam comunista o una sola manifestazione contro il mattatoio cambogiano costruito con sapienza scientifica da Pol Pot. Questi, in soli tre anni e mezzo, sterminò un quarto della popolazione del suo Paese.
Al tempo della prima guerra del Golfo, decisa dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq e legittimata da una risoluzione dell’Onu , assistemmo a manifestazioni oceaniche in nome della pace e contro Bush padre, ma un “silenzio assordante” è risuonato per le nostre strade una manciata di anni dopo, quando Slobodan Milosevic ordinò di stringere d’assedio Sarajevo. Silenzio, però subito tramutatosi in slogan anti-yankee quando iniziarono i raid aerei della Nato contro le forze serbe della Bosnia allo scopo di fermare quella mattanza. E siamo arrivati quasi ai giorni nostri.
Il pacifismo, la nuova «grande potenza mondiale» (la definizione è del New York Times) – portò nel 2003 milioni di persone lungo le strade delle capitali occidentali, per impedire che venisse deposto un dittatore sanguinario come Saddam Hussein. La stessa “potenza”, però, ha sempre taciuto sulla ferocia dei fondamentalisti islamici.
A questo punto la domanda è: qual è la vera anima dei pacifisti e perché, di fatto, difendono sempre le dittature?
Vladimir Bukovskij (dissidente sovietico e internato in un lager per molti anni) in “Gli Archivi segreti di Mosca” (Edizioni Spirali, pagg. 831, euro 30,5) si chiede: «Persino ora che mi trovo di fronte a centinaia di documenti sulla manipolazione sovietica dei movimenti pacifisti occidentali e che sembra esserci una risposta ad ogni domanda, a una di esse, quella che più mi tormenta, continuo a non poter rispondere: che cosa muoveva i pacifisti, la stupidità o la viltà?».
La risposta all’interrogativo posto da Bukovskij la troviamo nel pensiero di un grande filosofo e teologo protestante, Reinhold Niebuhr. Infatti, oltre sessant’anni, lo studioso americano scriveva: «Il vero nemico del pacifismo non è la guerra, ma la democrazia liberale… quel sistema imperfetto in cui i protagonisti politico-sociali prendono atto che i conflitti fra diversi interessi e diverse passioni non sono eliminabili e che con essi occorra fare i conti, faticosamente, tutti i giorni. La tirannia, viceversa, non ama i conflitti, perché non ammette le diversità d’interessi e di opinioni. Non li ama al punto che non consente loro di esprimersi sulla scena politica. Infatti, li elimina. La tirannia viene considerata dai pacifisti un ordine politico superiore alla democrazia liberale e, pertanto, viene vissuta come sinonimo di pace».
Una eco di questa mentalità è rintracciabile perfino nelle parole pronunciate martedì scorso in Parlamento da Massimo D’Alema. Secondo il nostro ministro degli Esteri, Saddam aveva il pregio di garantire la tranquillità della regione. L’attuale, traballante democrazia invece rinforza il terrorismo.
Insomma, il movimento pacifista si mobilita non perché abbia a cuore le sorti dell’umanità e voglia bandire dal mondo la guerra e la violenza, ma perché, continua Niebuhr, «odia l’Occidente liberale, democratico e, per sua natura, conflittuale». In primo luogo, gli Stati Uniti d’America. D’altro canto, come ricorda Bukovskij, «le colombe della pace fino alla caduta del Muro di Berlino non facevano altro che inneggiare all’Urss».
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