[…] Che cos’è lo 0,618? Anche se è la civiltà elettronica che ne mostra sempre più l’importanza, era un numero già ben noto agli antichi, che ne intuirono a tal punto il legame con il mistero da chiamarlo “sezione aurea” o “numero d’oro” o “proporzione divina”. Forse, questa cifra è davvero la firma del Dio in incognito, la sigla del Creatore che marchia la sua creazione in modo discreto quanto preciso.
Per cercare di spiegarci: prendiamo, ad esempio, un bastone lungo un metro. Tagliamone un pezzo di 38,2 cm. L’altro pezzo sarà, ovviamente, di 61,8 cm. I due pezzi, in questa lunghezza – e in questa soltanto – sono in un rapporto armonico tra di loro: in effetti, con un calcolo così semplice da non mettere in difficoltà neppure il sottoscritto (sempre pericolante, a scuola, in matematica e algebra), si constata che il rapporto tra il pezzo più corto e il pezzo più lungo è uguale al rapporto che c’è tra il pezzo più lungo e il bastone completo, quando era lungo un metro. Questo rapporto è costante, è sempre di 0,618.
Numero davvero enigmatico, perché rispunta anche in quella serie matematica (usatissima per risolvere molti problemi quotidiani e oggi essenziale per i computer) detta “successione di Fibonacci”. Che è quella successione nella quale ogni cifra successiva è data dalla somma delle due cifre immediatamente precedenti. Per intenderci: 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34… Se ci fermiamo a 34, una ragione c’è. A partire da lì, infatti, il rapporto tra due numeri successivi della serie (21 : 34 è, appunto, il primo rapporto utile) è sempre di 0,618, il valore cioè della “sezione aurea”, e tale resta all’infinito, divenendo anzi sempre più preciso.
Curiosità da giornale enigmistico? Per niente, visto che non a caso gli artisti e gli architetti antichi si servirono largamente del “numero d’oro”. Se il proprio dell’arte antica – greco-romana ma anche egizia – è l’armonia, il segreto nascosto di proporzioni che danno gioia e riposo sta proprio nella “sezione aurea”, usata nell’architettura, nelle statue, persino nelle anfore. Ad esempio: le piramidi sono costruite tutte con quel rapporto; e 0,618 è il rapporto tra la lunghezza, la larghezza e l’altezza dei templi greci.
Lo stesso valore (e dimensioni calcolate secondo la “successione di Fibonacci”) si ritrova nell’arco di Costantino; ma poi anche nelle cattedrali romaniche o gotiche e in complessi monastici come quello della Certosa di Pavia. La pittura medievale e rinascimentale stessa obbedisce a queste proporzioni segrete, spesso ignorate da chi guarda, che non sa spiegare perché ciò che vede sia così “bello”. Bello, perché pieno d’armonia. Ma, per conseguire questa, gli artisti non facevano altro che rifarsi al creato che li circondava, secondo la legge classica: natura magistra artis, la natura è maestra dell’arte.
Perché questo è il fatto stupefacente, già noto ai sapienti migliaia di anni fa ma oggi confermato in modo spettacolare dai computer: quello 0,618, quel rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armoniosa col tutto, lo si riscontra in geometria come in fisica, in botanica, in zoologia, in mineralogia, in chimica, nel microcosmo come nel macrocosmo, dagli organismi infinitamente piccoli sino agli enormi corpi celesti. Lo stesso corpo umano, quando le sue proporzioni sono perfette, è tagliato alla vita secondo il “numero d’oro” e nel medesimo rapporto stanno i vari organi tra loro, dal naso all’alluce.
In “sezione aurea” (o secondo dimensioni che rispettano la “successione di Fibonacci” che a quella sezione obbedisce) sono gli organismi di mammiferi, pesci uccelli, farfalle. Sino al caso particolarmente evidente della stella di mare, stella a cinque punte che non per nulla (con il pentagono da cui deriva) è antichissimo simbolo religioso – assunto poi dalla gnosi massonica – essendo tutta basata sul “numero d’oro”. O al caso della conchiglia, che è una spirale logaritmica, tutta costruita sullo 0,618. Ma è lo stesso rapporto che si constata tra lunghezza e larghezza delle foglie di rosa. Così, tronchi, rami, foglie delle piante crescono e sono disposti secondo i numeri di Fibonacci. Per restare alla botanica, un fiore di girasole è un mistero geometrico che soltanto i computer stanno rivelando, essendo le sue migliaia di gialli semi disposti dentro la corolla secondo una spirale logaritmica. La quale, lo dicevamo anche per la conchiglia, ripete all’infinito la costante 0,618. È, del resto, lo stesso rapporto impiegato dalle api per costruire i loro alveari, dove le cellette esagonali sono un risultato non superabile di funzionalità ed eleganza.
Solo di recente si è scoperto che il segreto, rimasto così a lungo impenetrabile, della “voce” inimitabile dei violini costruiti da Antonio Stradivari non stava solo nella scelta sapiente di legni e vernici e nella perfetta lavorazione ma, soprattutto, nel fatto che le parti dello strumento sono tra loro in “rapporto aureo” e hanno misure “alla Fibonacci”. Metodo, questo di Stradivari, praticato anche dai migliori costruttori di organi per determinare la lunghezza delle canne. Tutto questo rinvia ad un altro fatto, davvero, anch’esso, straordinario, visto che lo 0,618 non presiede soltanto a vibrazioni, frequenze, toni, semitoni di quell’arte divina tra tutte che è la musica, ma anche all’”organo di Corti”, la formazione cellulare che, nell’orecchio, ci permette di cogliere i suoni.
Anche se si potrebbe continuare a lungo, questo basta a spiegare perché di quella magica cifra si siano impadroniti, da millenni, gli esoteristi, spesso nelle logge massoniche.
Ma non è magia, bensì scienza che l’informatica rende sempre più estesa ed esatta, l’esistenza di un rapporto armonico, costante, misurabile con precisione nella natura; rapporto che complica, e di molto, le difficoltà di chi tutto vuole attribuire a un mitico “caso”, a una incredibile “materia” che si sarebbe organizzata da sola.
Assai più semplice - e razionale – veder in quello 0,618 il marchio del Dio in incognito, la sigla del Creatore “nascosto” che semina tracce, indizi, impronte digitali per chi sappia vedere e pensare.
Vittorio Messori, La sfida della fede, Edizioni San Paolo, 1993, pp. 357-360.
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