Thursday, September 27, 2007

C'è una casta anche nella Chiesa

Ma chi comanda in Vaticano? Benedetto XVI è forse stato esautorato di fatto? O è clamorosamente boicottato? Più di un sospetto viene davanti all’ultimo “giallo” (ce ne sono altri precedenti) che ha segnalato – trionfalisticamente – sul Corriere della sera di ieri Alberto Melloni, capofila dei cattoprogressisti martiniani.

Parlando del Motu proprio del Papa che restituisce libertà di celebrare la Messa col rito tradizionale, provvedimento a cui il Papa tiene tantissimo, al punto da averne fatto un pilastro del suo pontificato, Melloni rivela che, sebbene sia entrato formalmente in vigore il 14 settembre scorso, qualcuno ha preso la “saggia decisione di tenere ancora a bagno maria” il decreto, non facendolo pubblicare negli “Acta Apostolicae Sedis” ovvero “l’organo che dà vigore ai provvedimenti papali”.
E’ una rivelazione clamorosa: c’è qualcuno in Vaticano che conta più del Papa e provvede a sabotare nella sostanza ciò che il Papa decide e firma? In quale altro modo si può spiegare il caso? Incidenti simili erano già capitati nei mesi scorsi, anche per l’enciclica di Benedetto XVI che infatti uscì con cospicuo ritardo sui tempi annunciati. Ma questo è il più clamoroso ed ha un grave valore simbolico. Anche se adesso faranno un qualche rattoppo. Cosa sta accadendo Oltretevere?

Il professor Giuseppe De Rita, che conosce bene gli ambienti di Curia, in un’intervista recente al Corriere della sera, dichiarò che il Papa “scrive libri e dà l’idea di aver deciso di non comandare”, mentre altri hanno “la tentazione di farlo”. Ora, è vero che il papa teologo mostra qualche difficoltà nel governare la Chiesa e, per esempio, ha fatto nomine pessime. Ma è impossibile che abbia rinunciato a fare il Papa. Il fatto è che Benedetto XVI è praticamente solo nel Palazzo apostolico e la barca di Pietro è sballottata qua e là dalle burocrazie clericali (sì, c’è una casta anche nella Chiesa). Che nelle logge vaticane questa sia la logica lo dimostrano anche le recenti nomine episcopali, quasi tutte di “martiniani”, quando proprio il cardinal Martini, oggi più apertamente che mai, contesta il magistero del Papa. L’ultimo episodio riguarda lo stesso Motu proprio che l’ex arcivescovo di Milano ha clamorosamente bocciato (dando la linea a molti vescovi italiani che si sono apertamente ribellati al Papa). Mentre le condizioni della Chiesa, anche in Italia, sono tragiche – come mostrano quotidianamente le cronache dei giornali – sembra che in Curia siano affaccendati solo in lotte di potere. Il Papa invece ha una percezione drammatica delle condizioni della Chiesa. Lo dimostra il grido che lanciò nella storica Via Crucis del 25 marzo 2005: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia!”.

Ma quando, dove e come si è fatta pulizia dopo una così clamorosa denuncia? Il Papa da solo non può, ma anche lui prima o poi dovrà fare scelte coraggiose. Per non continuare come si è fatto per lungo tempo, quando si sono perseguitati i santi – come si è perseguitato Padre Pio, come si è perseguitato don Giussani – e si sono coperte le sporcizie che non si dovevano coprire. Ricordo il drammatico grido di don Giussani nella sua ultima intervista: “La Chiesa si è vergognata di Cristo”. Intendeva dire: gli uomini di Chiesa, che però non si sono vergognati della tremenda “sporcizia” denunciata da Ratzinger.

Non c’è solo la sporcizia morale, ma anche il mancato rispetto della dignità umana. Basti vedere in che condizioni è il Vaticano, unico stato europeo dove la dignità e i diritti della persona, che la Chiesa giustamente difende dovunque, sono carta straccia. La Curia può pure sprofondare, ma la Chiesa no e, grazie al Cielo, non sarà distrutta. Pio XII una volta disse a un personaggio, noto anticlericale, che se non erano riusciti i preti a distruggere la Chiesa, non ci sarebbero riusciti neanche loro. San Vincenzo de’ Paoli fu ancora più duro: “La Chiesa non ha nemici peggiori dei preti”. La storia in effetti fa riflettere. Basti considerare cosa hanno dovuto subire molti santi. Pio XII, parlando una volta di Padre Pio, disse: “Non dimenticate quante persone sono state proclamate sante, nonostante che il Santo Offizio le avesse colpite e condannate”.

Facile acclamare queste persone innocenti poi quando la Chiesa le canonizza. Era dovere difenderle prima, quando gli uomini di Chiesa li perseguitavano. Ma purtroppo nel mondo cattolico domina l’opportunismo, il servilismo e il clericalismo. Gli intellettuali, perlopiù, o sono succubi di ideologie nemiche o sono interessati solo a baciare la pantofola al prelato potente del momento.

L’unico uomo libero nei palazzi curiali, seppure solo, resta Joseph Ratzinger. L’unico non clericale. L’ho conosciuto circa venti anni fa, la prima volta che lo invitai a Siena per una conferenza. E lui – essendo già prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – sorprese tutti tenendo una lezione sulla memorabile frase di Newman: “brindo al Papa, ma prima alla coscienza”.

Ben pochi infatti, fra i cattolici, conoscono l’autentica dottrina cattolica che, peraltro, è sottolineata anche nel Catechismo dove si cita una frase simile di Newman: “la coscienza è il primo dei vicari di Cristo”. Questo significa che i cattolici hanno il dovere di dire la verità, di riconoscerla anche quando fa male e di affermarla anche contrapponendosi a uomini di Chiesa. Quanto avrebbe da guadagnare la Chiesa dall’esistenza nel mondo cattolico di uomini liberi come erano nel Medioevo santa Caterina, Dante o Antonio da Padova, veri figli di Dio i quali sanno che non si serve Dio con la menzogna, con l’omertà e col servile vassallaggio di un certo clericalismo. Quanti fatti orrendi sarebbero stati evitati, risparmiando alla Chiesa la vergogna e l’onta.

Sentite quest’altra memorabile pagina. Vi sorprenderà perché è di Joseph Ratzinger: “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo”.

E’ straordinario che sia diventato Papa il teologo che ha scritto questa pagina. Ed è ovvio che in Curia il partito clericale tenti in ogni modo di isolare e sabotare questo straordinario “anticlericale”, nel senso in cui era anticlericale Gesù quando fulminava gli apostoli intenti a spartirsi i posti di potere. Gesù li zittì dicendo: “Voi sapete che i capi delle nazioni spadroneggiano e i grandi esercitano il potere sopra di esse. Ma non così dovrà essere tra voi; anzi chi tra voi vorrà essere il primo si faccia vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo il quale non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per la redenzione di molti” (Matt. 20, 25 28).

Infatti la speranza e la forza della Chiesa non sono quelli che hanno trasformato la Chiesa in un luogo di potere, ma quelli che seguono Gesù sulla croce. E’ ancora Joseph Ratzinger a sottolinearlo: “Le vie di Dio sono diverse: il suo successo è la croce…non è la Chiesa di chi ha avuto successo ad impressionarci, la Chiesa dei papi o dei signori del mondo, ma è la Chiesa dei sofferenti che ci porta e credere, è rimasta durevole, ci dà speranza. Essa è ancora oggi segno del fatto che Dio esiste e che l’uomo non è solo un fallimento, ma può essere salvato”.

Antonio Socci su Libero del 23/09/2007

Tuesday, September 25, 2007

Da padre Bossi alla preghiera di Gesù

Padre Bossi, il missionario cattolico recentemente sequestrato e liberato nelle Filippine, ha affermato (vado a memoria): “Nei giorni della mia prigionia, avevo grande difficoltà a pregare. Ero così sconvolto che non riuscivo a pensare ad altro che a quello che mi stava accadendo. Da questa esperienza ho capito il motivo dell’obiezione che, prima del sequestro, mi rivolgevano le persone malate o i loro parenti: «Non inviti alla preghiera, padre, perché chi è malato, sofferente, non ci riesce!»”.
Pur nella dovuta considerazione del dramma vissuto da padre Bossi, c’è da chiedersi: se pregare non riesce naturale di fronte ad un dolore, un pericolo, quando allora?
Mi sono ricordato di ciò che viene detto dei missionari cristiani in Mendicanti di luce, di Masterbee: “Sono persone eccezionali, di grande cuore. Tuttavia, tutti quelli che ho conosciuto pregavano molto poco”. Se questo è vero, le frasi sorprendenti di padre Bossi si possono spiegare con la disabitudine alla preghiera, ‘tipica’ dei missionari, o, alternativamente, con le parole che Gesù rivolge a Marta e Maria!

Da poco, beata ignoranza, ho conosciuto la “preghiera di Gesù”, gioiello della spiritualità cristiano ortodossa. Jean Lafrance afferma che questa preghiera – Signore Gesù Cristo Figlio di Dio abbi pietà di me peccatore, o, ancora più semplicemente, Kyrie Jesu Christe Eleison - è l’equivalente per l’Oriente cristiano del nostro Rosario. Per saperne di più, ho fatto un salto alla libreria delle Paoline alla ricerca dei Racconti di un pellegrino russo. Ho trovato, fra le altre, un’edizione del libro curata da Carlo Carretto, pubblicato da Cittadella Editrice. La presentazione scritta da quel grande apostolo contemporaneo è splendida. L’ho trovata in rete. Eccola qui.
Ho sempre fortemente desiderato far conoscere questi “Racconti di un pellegrino russo” ai miei fratelli italiani. Da quando questo libro mi capitò fra le mani, molti anni fa in edizione francese, sulle piste del Sahara, posso dire di averlo sempre portato con me. Fu uno dei libri-chiave che stanno bene nella sacca di un nomade quale ero io, sempre preoccupato di fare in fretta e di portare con me il minimo indispensabile.
Quante volte mi sono riletto queste pagine semplici come l’acqua e trasparenti come l’aria nei miei ritiri nel deserto. Soprattutto tornavo ad esse volentieri quando ero stanco di parole e povero di idee, cioè quando la mia vita diventava silenziosa e la mia anima assetata di quiete.
“Come un bambino in braccio a sua madre è in me l'anima mia” dice il salmo 130, ed è ciò che capita quando si cerca la contemplazione e si avverte per esperienza che tale attività dell’anima è frutto di amore e di semplicità più che di ragionamento e di forza. “Divenire bimbi in braccio alla madre”: ecco la più alta spiritualità dell’uomo sulla terra. Ma diventare bambini non è cosa facile per uomini minati di orgoglio come noi! Difatti Gesù, che se ne intendeva, ci ha chiaramente avvertiti in proposito: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”. Direi che è una minaccia la sua: “Non entrerete...non entrerete...non entrerete!”.

So che non sarò creduto, ma non dubito di affermare che un inizio serio di vita spirituale incomincia quando l’uomo fa un autentico atto di umiltà, e sovente la propedeutica alla fede per la maggior parte degli uomini, o la maturazione di essa per altri, è bloccata, avvelenata, torturata, prolungata all’infinito dall’incapacità di divenire bambini e di buttarsi nelle braccia del mistero di Dio come un’anima di fanciullo.
Si vuol fare i furbi con Dio, e nessuna categoria di uomini è così detestata dal Vangelo. Si vuol porre delle condizioni all'Eterno all'Infinito, e l’Infinito e l’Eterno lasciano che il tempo ti distrugga.

Ecco perché ho amato e amo questo giovane pellegrino russo: perché ha il cuore di un fanciullo e non pone condizioni al suo Dio. E Dio gli ha insegnato a pregare. Dio l’ha accolto nella sua pace, nella sua gioia, nonostante una povertà spaventosa e una sofferenza senza limiti. E certo - e lui non lo sa - è giunto al termine del cammino della preghiera: è diventato una preghiera vivente. Vive la preghiera allo stato puro, in unione così totale con Dio da ricordare l’esperienza straordinaria del beato Labre, pellegrino per le strade che dalla Francia conducono ai santuari di Roma.
Purificato dalla prova, immerso nel bagno liberatore della povertà evangelica, distaccato dal sensibile, il giovane è divenuto un vuoto contenente lo Spirito di Dio, uno strumento musicale pronto e disponibile a una mano ultraterrena, capace di armonie celesti. Ed è giunto a tali altezze servendosi dei mezzi più poveri che si possano immaginare. Una sola frase ripetuta come nota continua e profonda, un’accettazione della realtà di ogni giorno come mistero della Provvidenza, una bibbia nella sacca con un po’ di pane duro.

Noi occidentali, che ci crediamo sperimentati nella teologia, sorridiamo di compatimento dinanzi ad una tecnica della preghiera così infantile, così meccanica, così poco intelligente! Forse non abbiamo sorriso davanti al rosario delle nostre nonne? Ma la realtà è che questo giovane ha transitato il muro dell’Invisibile, i nostri vecchi senza saperlo erano dei contemplativi, mentre noi, ricchi del nostro pensiero e della nostra sicurezza, minacciamo di morire di freddo siderale lontani dal sole dell’anima, Gesù. Perché fu proprio lui, Gesù, a dire in un momento di esaltazione spirituale: “Ti ringrazio, Padre, che hai nascosto queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11, 25).
Ed è questa la prima cosa che dobbiamo ritenere nel metterci alla scuola della preghiera. Il Padre si rivela ai piccoli, il Padre si nasconde ai sapienti. Non è uno scherzo! Se vogliamo diventare conoscitori di Dio, intimi dell’Altissimo, dobbiamo farci bambini. Se ci teniamo alla rivelazione del suo volto, dobbiamo abituarci alla contemplazione estatica fatta con gli occhi della povertà e della semplicità del cuore.

Un’ultima cosa vorrei dire ai lettori dei ‘Racconti di un pellegrino russo’. Non impressionatevi della tecnica infantile, un po’ ...meccanica insegnata dallo starets al giovane pellegrino. E' più importante di quanto non possa sembrare a prima vista. Se praticate nella sua trasparenza di amore, può diventare, con una forza direi... “fisiologica”, il modo più rapido di abbandonarsi all'intimità con Dio e al ritmo del Cuore divino. Confesso di essermene servito largamente, specie per avviarmi alla preghiera di quiete. Me ne sono servito più largamente ancora quando le difficoltà di entrare nella preghiera erano dovute al lavoro pesante, ai troppi impegni, ai turbamenti del cuore e dello spirito. Mi sono sentito come cullato dal ritmo di questa preghiera litanica, e quindi aiutato come un bimbo ad addormentarsi nelle braccia di Dio. Non è poco per chi, come noi, nasce e vive con la convinzione di essere tutto, di fare tutto, di pensare tutto. Che è l’esatta convinzione di chi, pur dicendo di credere in Dio, non lascia alcuno spazio vitale al suo intervento in noi e nella storia.
Lasciare spazio a Dio, ridurre il nostro: ecco il segreto di tutto. Ma come è lungo il cammino per giungervi! Questi racconti possono aiutarci.

Tuesday, September 18, 2007

«Il Paese è spaesato» Ma un popolo c’è

La Chiesa suona le sue campane. Sono campane a martello. Ci sono i lupi, l'Italia è devastata. La gente deve stringersi a ciò che le è più caro: il bene che arriva dalla sua tradizione, il cristianesimo. Il disastro della situazione morale ha questo di buono: si capisce che il rimedio non può venire da «buone ideologie ma dalla bontà». Bella e nuova la formula usata dal presidente della Cei monsignor Angelo Bagnasco dinanzi ai trenta vescovi italiani del Consiglio permanente. Non ha detto una parola sull'Ici e sui presunti privilegi di oratori e parrocchie. Ha accusato lo Stato, ed implicitamente la classe politica, di aver lasciato che «il vincolo sociale sia sempre più friabile». Il fatto è che non riesce a stabilire un buon «legame con i cittadini». Perché i cittadini si sentono di appartenere a uno Stato quando esso è «promotore e garante del bene comune». Questo oggi non lo percepisce nessuno. «Il Paese è spaesato», dice Bagnasco e i vescovi assentono. «Il vuoto non si regge in piedi, l'Italia merita un amore più grande! Merita una responsabilità più grande!». Dopo aver gridato che la casa brucia, e bisogna rimediare, Bagnasco ha cambiato melodia, e ha fatto squillare la sua campana con qualche brivido di speranza. Per fortuna, ha detto, la fede in Italia dà ancora forma alle mente di una «maggioranza silenziosa». Da lì si può ripartire. Mentre dovunque, sui giornali e nelle sedi della politica, il dibattito sul grillismo è onnivoro, Bagnasco è l'unico leader di questo scalcinato Paese che ha il coraggio di non citare il comico, né per dirgli bravo né per prendere le distanze. Guarda la nostra realtà con una compassione senza rabbia. Anche lui, come il nuovo capopolo della piazza, ha residenza a Genova, una volta patria di cantautori ed oggi osservatorio sui mali e i beni della Penisola. Tra i due c'è una certa differenza di rango, come no? L'analisi è - come abbiamo visto - ugualmente dura sulla questione politica. Il successore di «don» Camillo Ruini rimprovera di non contrastare a sufficienza la criminalità. Di non fare abbastanza per la famiglia e specialmente per quelle monoreddito. Accusa l'assenza di un progetto per la casa, lasciando nell'abbandono le coppie che non hanno la possibilità di risolvere la questione della loro dimora. A questo proposito Bagnasco picchia un pugno anche sulla scrivania dei banchieri. Gli istituti di credito dovrebbero mettersi una mano sul cuore oltre che puntare al portafoglio dei clienti e ragionare in termini più equi riguardo a prestiti e mutui. Come rinascere però? La chiave di volta per costruire un edificio sociale più resistente alla disgregazione, Bagnasco la individua non in una rivolta ma «nella educazione». Il primo punto è «l'emergenza educativa». La dissoluzione morale non è una prerogativa soltanto dei politici. C'è «una crescente difficoltà che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell'esistenza e di un retto comportamento. Una disamina che non lascia margini ad illusioni, considerata la società in cui viviamo, afflitta da uno strano "odio di sé", e considerata la cultura odierna che fa del relativismo il proprio credo, precludendosi in tal modo la possibilità di distinguere la verità e quindi di poterla perseguire». In questa incapacità a educare c'è la radice dei mali. Dice Bagnasco: «Come non leggere qui in filigrana le tante vicende di cronaca che hanno assediato la nostra estate, suscitando sgomento e sempre ulteriore allerta? Come non intravedere qui l'atteggiamento di resa che contrassegna tanta prassi sociale, in cui a prevalere sono il divismo, il divertimento spinto ad oltranza, i passatempi solo apparentemente innocui, il disimpegno nichilista e abbrutente la persona, giovane o adulta non importa, ché, tanto, verso il peggio le differenze si annullano?». La citazione è lunga ma permette di intravedere lo stile insieme antico e ratzingeriano di Bagnasco. Rispetto a Ruini c'è meno attenzione alla politica in senso stretto, e si preferisce indicare i criteri generali. Si risponde alle recenti polemiche culturali sull'impossibilità dei cattolici di essere buoni cittadini (ultimo l'intervento di Gustavo Zagrebelski) finché accettano il retaggio del Papa e della morale cattolica. Anzi, Bagnasco spiega che proprio di questa spinta cattolica, che allarga la ragione alle misure del trascendente, ha bisogno questo nostro tempo. Non ha paura di niente Bagnasco. Anche di aprire un forte contenzioso su aborto ed eutanasia. Si dirà che non c'è nulla di nuovo. Vero: la dottrina è quella. Ma l'annuncio è chiaro: sull'eutanasia il popolo e i politici cattolici sono chiamati a resistere e a dare forma ad un dissenso intelligente rispetto alla morale degli intellettuali. Dando voce alla «maggioranza silenziosa» che ancora adesso, sulla base di una saggezza che viene dai secoli, si appoggia ai «capisaldi della storia e della tradizione del nostro popolo». Interessante la difesa delle scuole professionali (un omaggio anche al salesiano cardinal segretario di Stato Bertone), e l'attacco a un mostro sacro del politicamente corretto, e cioè Amnesty International, che vorrebbe considerare l'aborto non sono plausibile, ma addirittura un diritto umano. Per chi ha nello statuto la difesa dei diritti umani è il colmo.

Renato Farina, Libero, 18 settembre 2007

I vescovi contro il Papa

I vescovi contro il latino. Ma l'obiettivo è il Papa,
di Antonio Socci, su Libero del 14 settembre 2007

Era il 1971 e il teologo Joseph Ratzinger - che pure era stato un uomo del Concilio - denunciò l'immane disastro "progressista" del post Concilio, indicando a chiare lettere la grave responsabilità di tanti vescovi: «In base a queste istanze (progressiste), anche a dei vescovi poteva sembrare "imperativo dell'attualità" e "inesorabile linea di tendenza", deridere i dogmi e addirittura lasciare intendere che l'esistenza di Dio non potesse darsi in alcun modo per certa. Per questo sono certo che si preparano per la Chiesa tempi molto difficili. La sua crisi vera e propria è solo appena cominciata». E infatti la crisi è divampata e a farla esplodere è stato innanzitutto l'attacco alla liturgia che della Chiesa è il cuore. Da cardinale tutore della fede, nel 1997, Ratzinger scriverà: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal crollo della liturgia» (La mia vita, 1997).

LIBERTÀ RESTITUITA
E oggi, da Papa, egli regala alla Chiesa un giorno storico. Il 14 settembre infatti entra in vigore il Motu proprio con cui Benedetto XVI ha restituito ai fedeli la libertà di partecipare alla cosiddetta liturgia tridentina, la liturgia di sempre della Chiesa.
Attenzione: non è solo questione del latino (perché anche la riforma del 1969 ha la sua messa in latino). Né è questione che interessa solo i cosiddetti tradizionalisti. È molto di più: la notte dell'autodemolizione progressista e modernista della Chiesa sta finendo.
Un grande teologo come Von Balthasar - che Papa Wojtyla volle cardinale pur essendo anch'egli uomo del Concilio, scrisse: «Stranamente a causa di questa falsa interpretazione si ha la sensazione che la liturgia post-conciliare sia divenuta più clericale di quanto non fosse nei giorni in cui il sacerdote era un semplice servitore del mistero che veniva celebrato!». Da oggi ai cristiani viene finalmente restituita la libertà di pregare (e di credere) come la Chiesa dei loro padri e dei Santi ha pregato (e creduto) per 19 secoli. Una libertà loro sottratta da vescovi e chierici "progressisti" dispotici che prima hanno (arbitrariamente) presentato la riforma liturgica del 1969 come un'abolizione del rito tradizionale della Chiesa e poi hanno sabotato lo speciale indulto chiarificatore di Giovanni Paolo II del 84 e del 86.
Ora Benedetto XVI - preso atto del boicottaggio dei vescovi - ha ordinato loro di riconoscere i diritti dei fedeli. Un passo grandioso che porterà frutti sorprendenti alla Chiesa.

Ma, ancora una volta, diversi vescovi stanno cercando di disobbedire al Papa con la ribellione esplicita o con qualche trucco dialettico. A dare il la come al solito è stato il cardinal Martini che - ormai nei panni dell'Antipapa - ha tuonato che lui non avrebbe mai celebrato nel rito tradizionale per "quel senso di chiuso che emanava dall'insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva". Così, forte del fallimento pastorale progressista (e del suo episcopato), Martini ha liquidato secoli di santità: la Chiesa dove sono fioriti i più grandi santi, da Caterina a Francesco, da Carlo Borromeo a Francesco Saverio e Teresina di Lisieux, da Massimiliano Kolbe a Padre Pio, darebbe «un senso di chiuso» rispetto alla chiesuola progressista, fatta - immagino - di cattocomunisti, ecumenisti scatenati e teologi della liberazione. La grandiosa liturgia cattolica per la quale geni come Mozart, Michelangelo e Caravaggio hanno creato capolavori darebbe un'idea di "chiuso" rispetto agli sciamannati schitarramenti postconciliari con i più indecenti abusi liturgici.
Ma subito a coda di Martini ha preso il coraggio del boicottaggio furbesco anche l'attuale vescovo di Milano Tettamanzi (scottato dal conclave del 2005 da cui voleva uscire Papa) e altri vescovi, tra i quali va citato quello di Pisa per la sua aperta opposizione al Papa (da monsignor Plotti aspetto ancora che mi spieghi il senso della Cattedrale a pagamento, come fosse un museo). Per avere un'idea di cosa sia la "chiesa progressista" bisogna leggere un articolo apparso l'altroieri su Repubblica. Parlava dei funerali dei bimbi rom, morti in un incendio a Livorno, celebrati dal pope ortodosso nella Cattedrale cattolica della città toscana. Monsignor Razzauto, amministratore diocesano con funzioni di vescovo, che ha concesso la cattedrale ha dichiarato: «Se, per motivi speciali, o per mancanza di spazio, ne avessero bisogno non avrei alcun problema a mettere a disposizione la Cattedrale anche agli islamici». Avete letto bene: la Cattedrale cattolica a disposizione per dei riti islamici. I commenti - teologici e canonici - li lascio alle autorità vaticane.

Vorrei sottolineare però che questo clero così ecumenico e aperto è lo stesso che poi, per decenni, ha negato le chiese ai fedeli cristiani per celebrare la Messa tradizionale.
In un'altra città toscana un vescovo ha negato la Cattedrale addirittura a un cardinale perché avrebbe celebrato, com'era sua facoltà, la Messa tridentina.

Nella ribellione dei vescovi c'è un'opposizione al Papa che viene da lontano.

Al Concilio don Giuseppe Dossetti, passato dalla politica italiana alle smanie riformatrici della Chiesa, provò a dimostrare che il vescovo ha il potere di giurisdizione con l'ordinazione stessa, a prescindere dal fatto che lo riceva dal Papa. Se questa idea fosse stata accolta la Chiesa Cattolica si poteva trasformare in chiesa episcopaliana col Papa ridotto a coordinatore. Invece fu bocciata e Dossetti fu rimosso da Paolo VI. Ma i vescovi progressisti non hanno mai rinunciato alle loro pretese. Paolo VI, negli ultimi anni, era diventato una voce che grida nel deserto. L'allora patriarca di Venezia Albino Luciani fu tra i pochi che cercò di opporsi alla dissoluzione: «Sarebbe ora di affermare coraggiosamente che voler essere col Papa non è deteriore complesso di inferiorità, ma frutto dello Spirito Santo». Con Wojtyla il papato ritrovò vigore.

SCHIAVI DEL POTERE
Ma ricordo l'ottimo don Divo Barsotti che in un'intervista del 1985 mi diceva: «C'è un grande pericolo, il disgregamento dell'unica Chiesa di Cristo. I viaggi del Papa, secondo me, esprimono questa drammatica preoccupazione. Il papato negli anni recenti era stato umiliato e isolato. Nessuno voleva più sentir parlare del Papa, soprattutto i vescovi...». E poi aggiungeva: «Ancora non si è superato questo dramma. Ci sono ancora vescovi che resistono al Papa». Giustamente Barsotti sottolineava che il vescovo ha diritto di essere seguito dai fedeli, ma se è in comunione col Papa. Altrimenti fa una sua chiesuola. Lealtà vorrebbe che un vescovo in disaccordo col Papa si dimettesse. Ma di rinunciare al loro potere clericale non vogliono sentirne parlare. Anzi, purtroppo continuano tuttora a essere nominati vescovi di area "progressista" che promettono di continuare questa deriva. Perché la burocrazia clericale è ancora in loro potere. Cosa temono dalla libertà? Perché vogliono impedire al popolo cristiano di pregare come la Chiesa ha pregato per due millenni? Perché nella Chiesa "lex orandi, lex credendi". La Liturgia esprime la dottrina cattolica ortodossa ed è la vera fede che affascina e attrae. Mentre la loro stagione è quella del passato, quella - come denunciò il cardinal Ratzinger - dove i cristiani erano «portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». In quel memorabile discorso di apertura del Conclave, Ratzinger aggiungeva, amaramente: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all'altro». Benedetto XVI ora cerca invece di ancorarla alla roccia della tradizione ortodossa. E anche se il "partito clericale" gli ha dichiarato guerra, ha con sé il popolo cristiano.

Monday, September 17, 2007

La messa in latino e i sacerdoti progressisti

"La messa in latino, ritorno al sacro contro i sacerdoti del finto progresso", di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il Giornale, 16 settembre 2007

Se qualcuno pensa che i cattolici affezionati alla messa di San Pio V, quella in latino, siano un plotoncino sparuto di generali in pensione e di duchesse svanite faccia un esperimento. Vada sul web: si troverà al cospetto di giovanotti in grado di maneggiare il computer come pochi, pieni di energie, con lo sguardo rivolto al futuro. Gente che ama la tradizione, ma che vive con i piedi piantati nel presente. E che proprio per questo ha già fiutato il clima vagamente censorio che si respira in molte parrocchie italiane in questi giorni.
È entrato in vigore il motu proprio con cui Papa Benedetto XVI liberalizza la messa di san Pio V, ma una fetta dell’episcopato italiano si appresta a mettere la sordina al documento. Il caso della diocesi di Milano, opportunamente sollevato dal Giornale, ne è l’esempio più vistoso: siamo ambrosiani - hanno fatto sapere dalla curia - dunque niente Messa di San Pio V. Un cavillo che ha il solo scopo di disattendere il documento del Papa. Del resto, quanti vescovi hanno parlato pubblicamente e liberamente di ciò che sta avvenendo? Quanti parroci? Uno solo, che ci risulti, si è assunto questa responsabilità apertamente, applicando subito il motu proprio e ha riempito la chiesa di fedeli, suscitando la reazione dell’apparato di curia.
Anche questo un caso che ha sollevato Il Giornale. Un giornale laico. Come laica è La Stampa, sulla quale Massimo Gramellini, all’indomani della pubblicazione del motu proprio mise nero su bianco il seguente ragionamento: era ora che si suonasse nuovamente la campana del senso del sacro. Era ora di finirla con quei sacerdoti in jeans e chitarra che pensavano di essere più vicini ai loro fedeli e, invece, erano solo più lontani dal Cielo.
Laico Il Giornale, laica La Stampa: forse vorrà dire qualche cosa. Vuol dire che un atto come quello di Benedetto XVI non può essere letto con il paraocchi. E tanto meno con il paraocchi del cosiddetto spirito del Concilio Vaticano II che ha permeato la quasi totalità del mondo cattolico. Per un certo tipo umano da sagrestia, tutto deve essere letto in funzione del Vaticano II, e ciò che non rientra in quei canoni va silenziato. Siccome negli ambienti progressisti cattolici è stato stabilito che il motu proprio del Papa non è conforme allo spirito del Concilio, ecco pagato il Pontefice con la stessa moneta usata per l’ultimo dei reazionari.
Intanto il popolo non capisce come mai, pur in presenza di un atto del successore di Pietro, preti, arcipreti e vescovi dicano pubblicamente che non è cambiato niente, che si continua come prima. Non capisce come mai ci si permetta di non obbedire al Papa. Non capisce come mai sacerdoti e fedeli che manifestano interesse per la liturgia tradizionale vengano messi al bando e perseguitati: avete capito bene, perseguitati. Ci sono giovani che sono costretti ad abbandonare il seminario della propria diocesi per aver manifestato simpatie per l’antico rito.
Purtroppo, c’è un’evidente scollatura fra la gente comune, i fedeli, e un gruppo limitato, ma potente di intellettuali che hanno preso in mano le redini di non poche diocesi e facoltà teologiche. Sono quegli stessi che chiamano la Chiesa «popolo di Dio» ma sotto sotto considerano la gente solo una massa incolta lontana anni luce dalla famosa «fede adulta». Ma questo popolo, in realtà è formato da cattolici ordinari che per anni hanno subìto, mugugnando, tutti gli orrori liturgici perpetrati in nome di un’ideologia ecclesiale che ha avuto le caratteristiche di una vera e propria rivoluzione culturale. Nella quale, la degenerazione liturgica è preceduta, accompagnata e seguita da un errore dottrinale. Molti pastori e intellettuali non riescono o non vogliono capirlo. E vengono scavalcati da questo Papa teologo nel rapporto con il popolo. Mentre loro si attardano in sacrestia a capire chi si gioverà della ricaduta ecclesiologica del motu proprio, Benetto XVI è già in chiesa a parlare con il suo gregge. E più parla chiaro, più il suo gregge lo comprende e lo ama. Come quando discute dei principi non negoziabili. Che cosa vogliono dire le sue prese di posizione sulle questioni etiche se non un non negoziabile «Basta»?
Lo stesso accade per la riconsegna della piena cittadinanza nella Chiesa a una liturgia millenaria come quella della messa tradizionale. In questo caso, Papa Benedetto ha preso una posizione anche più forte. Ha scoperto un nervo che molti cattolici avrebbero preferito lasciare sottopelle: ha detto che un’intelligente fedeltà alla propria storia è più forte e più cattolica dell’infatuazione per un concetto utopistico di progresso. Ha detto che la tradizione è connaturale al cattolicesimo mentre l’ideologia è il suo esatto contrario.

Monday, September 10, 2007

Perché Dio si nasconde?

Se si manifestasse, tutto sarebbe più semplice. Quanti errori, quante colpe, quanti delitti e quante disgrazie si eviterebbero, se il bene supremo fosse presente tra noi, se fosse visibile ai nostri occhi!
Tre sono generalmente i motivi con cui si cerca di spiegare questa assenza di Dio che ci lascia errare e dubitare.
Si sostiene, innanzitutto, che la presenza di Dio ci priverebbe di ogni libertà di giudizio, sovrapponendo in qualche maniera il proprio determinismo a quello della natura, quando invece Dio ha voluto la libertà quale prerogativa del nostro essere.
Inoltre, la presenza di Dio ci farebbe perdere gli immensi benefici della fede, con tutti i meriti che ne conseguono.
Infine, si sostiene, la natura di Dio è talmente diversa dalla nostra, che è impossibile ridurlo entro il campo troppo limitato delle nostre facoltà.
A queste ragioni se ne aggiunge talvolta una quarta, tratta dalla Scrittura, secondo la quale nessuno potrebbe vedere Dio senza morirne.
Ma sono argomenti confutabili e si può dir, riprendendoli dall’ultimo, che niente impediva a Dio, che è onnipotente, di metterci in grado di captare la sua presenza, attenuando la sua luce; che la fede è certamente una cosa bellissima, ma che gli angeli, vivendo nella presenza di Dio e non avendo quindi bisogno di nessun atto di fede, non sono per questo meno amati di noi; infine, che è impossibile trovare un essere umano che non sia disposto a scambiare la propria libertà contro la certezza della felicità eterna.

Tuttavia, la presenza visibile di Dio non potrebbe che produrre un mondo diverso; il nostro compito è invece proprio quello di capire questo mondo.

È vero che il ritrarsi di Dio è la condizione della nostra libertà di coscienza, senza la quale saremmo solo giocattoli meccanici, privi della benché minima disposizione al dialogo.
È anche vero che questo ritrarsi permette il dischiudersi della fede, vale a dire della cosa che Dio ammira maggiormente nell’uomo.
È vero inoltre che i sensi ci consentono l’accesso a una piccolissima porzione del reale: se si potessero incidere tutte le «frequenze» dell’universo in un chilometro di nastro, saremmo in grado di leggerne solo tre millimetri; in queste condizioni, non abbiamo alcuna possibilità di captare quello che si potrebbe chiamare la «frequenza zero» della luce increata (cioè Dio stesso, N.d.R).
È vero, infine, e conforme alla Scrittura che «nessuno potrebbe vedere Dio senza morire», giacché, per essere all’altezza di questa visione, il potenziamento che richiederebbero le nostre facoltà equivarrebbe a una metamorfosi.

Questa discrezione di Dio potrebbe però avere un’altra spiegazione, che si fonda sull’esperienza e che chiama in causa soltanto la carità. (…) Nell’abbagliante luce spirituale che circonda Dio si rivela la presenza invisibile di un’innocenza tanto grande che costringe ciascuno a giudicarsi; i migliori, allora, si giudicheranno con maggior rigore: e Dio, nella sua bontà, non lo vuole.
Sono molti quelli che (…) vedono Dio come giudice e temono di essere chiamati dinanzi al suo tribunale. È vero che, di fronte alla sua purezza indicibile, saremo inclini a condannare noi stessi, non per aver offeso l’onnipotenza, ma per la vergogna di aver fatto soffrire un bambino. Ci sarà però qualcuno a difenderci contro noi stessi: sarà Dio il nostro avvocato.
È questa la nostra tragedia: non comprendiamo nulla dell’amore, e gli fissiamo dei limiti che esistono solo nel nostro cuore.

Da Dio. Le domande dell’uomo, di André Frossard, Mondadori, 1994, pp.89-91

Thursday, September 06, 2007

Sorella morte e …

Per trovare ciò che cerco, mi succede sempre più spesso di dover arrivare al termine di un percorso. È capitato pure con questo libricino in cui si parla della morte nella prospettiva cristiana. Quando si dice la coincidenza!

[…] Il superamento [della paura e dell’angoscia di fronte alla morte, N.d.R.] non avviene nella natura, ma nella fede ed è possibile perciò che la natura non ne tragga per sé alcun vantaggio. Gesù stesso volle sperimentare una «tristezza mortale» nella sua anima, di fronte alla morte e ne spiegò la ragione dicendo: «Lo spirito è pronto ma la carne è debole» (Mt 26, 41). Noi possiamo fare anche di questa angoscia materia da offrire nell’Eucaristia, con Gesù, al Padre. Cristo ha redento anche la nostra paura! Vi sono stati santi sereni di fronte alla morte, come san Francesco d’Assisi, e santi angosciati, perfino tra i figli del Poverello. Uno di questi è stato san Leopoldo Mandiċ, a cui – ho sentito dire - l’angoscia della morte impediva, talvolta, perfino di celebrare la Messa dei defunti. […]
Ciò che conta è la fede. A ogni discepolo Gesù risorto ripete ciò che un giorno disse a Marta: «Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo?». Beati quelli che sentono di poter rispondere, per grazia di Dio e dal profondo del cuore: « Sì, o Signore, io credo!».
(Sorella Morte, di Raniero Cantalamessa, Àncora Editrice, 1991, pp. 71-73)