Wednesday, July 25, 2007

Il Dio ‘nobile’ del cristianesimo e altre risposte

Mi capita spesso in questo periodo di prendere in mano La sfida della fede di Vittorio Messori. È il secondo volume di una quadrilogia, gli altri tomi essendo, in ordine di uscita, Pensare la storia, Le cose della vita e Emporio cattolico. Sono tutti una miniera di riflessioni, informazioni e citazioni che qualunque cattolico farebbe bene a gustare prima o poi.
Dal testo citato riporto di seguito alcuni passaggi; aiutano a fare il punto su delle questioni su cui mi sono soffermato di recente. L’indicazione delle pagine si riferisce alla vecchia edizione del libro, pubblicato dalla San Paolo. La ristampa è prevista prossimamente per i tipi della SugarCo.

Leggo la lettera che un convertito inglese, Bryan Houghton, scrisse ad un amico che, stupito, gli chiedeva come mai un uomo intelligente potesse ancora prendere sul serio il cristianesimo. Quanto a credere in Dio, ancora passi: tutti, più o meno, ci crediamo, seppure a modo nostro. Ma in Cristo? In quel complesso di miti orientali che sono i vangeli?
La risposta di Houghton mi sembra da trascrivere. [...] Vediamo.
«In tutte le religioni o irreligioni quell’Essere-non-contingente che chiamiamo Dio gode della sua Onnipotenza, nell’eterna felicità di una perfezione infinita. Dio, beato, si gira eternamente i pollici. Intanto, però, crea esseri contingenti – noi – ai quali distribuisce sofferenza e sventure. Per colmo, si crede che esiga da noi che soffriamo nobilmente, fino al martirio, per l’onore del suo Nome. In questo modo, poiché non esiste nobiltà più alta che la sofferenza sopportata, l’uomo diviene più nobile di Dio. Dio è una sorta di poltrone, magari sadico, che esige dagli altri ciò che non fa egli stesso».
Ne conclude quel convertito inglese: «È dunque qui che risiede la rivelazione fondamentale del cristianesimo, la sua novità sconvolgente e unica: Dio non è un poltrone e un sadico. Non esige dagli altri che sopportino ciò che non è disposto a sopportare egli stesso. In effetti, si è incarnato proprio per fare in quanto uomo ciò che non poteva fare in quanto Dio: soffrire il soffribile. Per questo mi sembra che, se almeno una religione è vera, è il cristianesimo che lo è; esso solo rende Dio più nobile dell’uomo. Noi creature abbiamo il nostro fardello di disgrazie e di sofferenze, ma sappiamo che il Dio creatore questi fardelli li ha portati tutti. È plausibile che una dozzina di popolani galilei abbia inventato questa prospettiva prodigiosa, che è la sola che possa salvare l’onore di Dio?». (pagina 513)

[...] l’ormai vecchio e malato Don Bosco, nel 1886, a due anni dalla morte, si spinse penosamente sino a Barcellona per incontrarvi i molti benefattori spagnoli e per cercare nuovo denaro. Per obbedire all’ordine del Papa, infatti, aveva dovuto caricarsi sulle ormai stanche spalle la raccolta di fondi per costruire la nuova basilica del Sacro Cuore a Termini.
Sulla via del ritorno, il Santo si fermò a Grenoble, dove fu alloggiato nel seminario. Scorgendolo ansante, quasi disfatto, il Superiore gli disse: «La vedo molto sofferente, monsieur l’abbé. Certo, alla sua età, è ben duro un viaggio così: ma nessuno meglio di lei sa quanto santifichi la sofferenza».
Questa la risposta di Don Bosco: «No, signor Rettore, non è così: ciò che santifica non è la sofferenza, ma la pazienza».
Cristianesimo non è affatto amare il dolore: è dargli un senso. Non c’è uomo che, spesso in segreto, non porti la sua croce: convertirsi, per lui, non vuol dire liberarsene, ma accettarla. Negare il dramma della vita, ribellarsi ad esso, significa trasformare quel dramma in tragedia, perché senza significato e senza speranza.

Per continuare con la preziosa sapienza dei santi [...] ecco Bernadette Soubirous. Le chiesero che cosa fosse, per lei, un peccatore. Tutti si aspettavano che rispondesse: «È uno che fa il male». E, invece, questa la risposta della Veggente: «Peccatore è uno che ama il male».
Risposta, a pensarci, profonda e consolante: quell’inferno contro il quale tanto violentemente si ribella il mondo moderno riduce così, e drasticamente, i suoi potenziali ospiti.
Tutti noi – o quasi – “facciamo” del male. Ma quanti, tra di noi, davvero “amano” il male? Forse è vero che, come è stato detto, più che cattivi siamo (tutti quanti) un po’ stupidi. Senza togliere nulla alla gravità del peccato, alla necessità di contrastarlo ogni giorno in noi. Bernadette, con la sua intuizione – che è propria dei santi – di che cosa sia davvero il vangelo, ci rassicura che non tanto il praticare quanto amare il male è ciò che può davvero tagliarci fuori (e per nostra volontà stessa) dalla Misericordia. (pp. 455-456)

Friday, July 20, 2007

Qualche domanda ai fratelli ebrei

Ieri, il Giornale ha pubblicato le parti salienti de ‘La chance d'Israele’ (reintitolato Il Rabbi preveggente sacrificato dagli integralisti), di Avraham B. Yehoshua. Si tratta di uno dei contributi dedicati a Gesù nell’ultimo numero della rivista Liberal, in uscita oggi in edicola.
Ho trovato l’articolo in questione interessante poiché, per quanto mi risulta, è esemplificativo di ciò che qualsiasi ebreo pensa del Nazareno. Proviamo a valutare la ragionevolezza di queste tesi.

L’autore inizia a parlare di Gesù dicendo: “Personaggio di grande rilievo storico, lo considero uno dei profeti o dei rabbini più famosi di Israele”. Yehoshua inserisce la predicazione di Gesù all’interno di un riforma dell’identità ebraica, vede il Nazareno come un Rabbi che ‘previde’ e si sforzò di evitare al suo popolo i pericoli mortali derivanti dallo scontro con l’autorità romana. Per lo scrittore (e per gli ebrei in senso lato), il messaggio e la vita di Gesù si sostanziano in “pietà e amore per i poveri e gli oppressi”, in “maggiore sensibilità nei confronti dei temi sociali”. Ora, ridurre la predicazione di Gesù ad una riforma interna dell’ebraismo nel senso accennato equivale ad ignorare i contenuti di quella predicazione.
Consideriamo il nocciolo degli insegnamenti di Gesù così come emergono dai Vangeli. Insieme al comandamento della carità verso il prossimo, vi troviamo l’insegnamento che nel prossimo c’è Lui stesso; che Dio ama gli uomini in tutto quello che sono e vuole tutti salvi; vi troviamo l’insegnamento per cui non possiamo arrivare al Padre se non passando da Gesù; c’è la promessa della vita eterna per chi fa la volontà di Dio; c’è la promessa della risurrezione in corpo e anima alla fine dei tempi. Inutile dire che, in quanto estranei alla mentalità ebraica, nessun uomo nato nella Palestina di allora avrebbe potuto elaborare insegnamenti e concetti di quel genere. Sulla base di questa considerazione possiamo riconoscere che Gesù diceva cose ... da ‘pazzi’!

Torniamo a Yehoshua. Dopo aver spiegato i termini dello scontro tra ebrei e romani, e una volta individuata la missione scelta da Gesù alla luce di questo scontro, l’intellettuale ebreo pone la domanda chiave: “Che bisogno aveva il Nazareno, nel quadro di una riforma interna ebraica, di autoproclamarsi Messia? Con questo proclama non si spinse troppo lontano nella sua sfida alle istituzioni religiose?”. Domanda più che opportuna! E come Yehoshua risolve la questione? Semplicemente non la risolve. Dice solo che “Gesù, novello Messia, non voleva solo cambiare o rendere più moderata l’identità ebraica - basata sulla stretta osservanza delle leggi della Torah e dei precetti - ma sovvertirla completamente, ribaltarla”. L’autore non tenta di interpretare quali fossero le intenzioni di Gesù, il suo ‘cambio di passo’. A mio parere, c’è solo una risposta, logica e implicita nel discorso di Yehoshua, che spiega il perché Gesù si fosse proclamato Messia, Salvatore, Dio: Gesù era un pazzo esaltato, oltre che un bestemmiatore in base alle leggi ebraiche. Ma se è così, perché lo scrittore definisce Gesù un grande personaggio della storia, un grande profeta e maestro? Questa stessa domanda vale anche per i mussulmani. C’è da chiedersi in che modo ebrei e mussulmani conciliano la grandezza di Gesù con l’‘insensatezza’ del suo proclamarsi Messia.

Un giudizio complessivo sulla figura di Gesù non può infatti trascurare la sua autoproclamata divinità. Nei Vangeli sono moltissime le frasi e le azioni di Gesù in cui Egli rivela di essere Dio. Furono proprio queste parole e queste azioni che lasciarono inorriditi i leaders religiosi ebraici del tempo e che fecero scattare su di lui le accuse più gravi. Facciamo qualche esempio.
1. “Prima che Abramo fosse, IO SONO” (Giovanni 8, 58). Ricordiamo che, per gli ebrei, il nome sacro e impronunciabile di Dio, il cosiddetto sacro tetragramma (JHWH), corrisponde, fra le sue varie traduzioni, alla prima persona del verbo ‘essere’. Pronunciando quella frase, Gesù avoca a se stesso nome, natura e caratteristiche divini. Si trattava chiaramente di una frase assurda e inaccettabile per un ebreo; da qui il tentativo di lapidare Gesù.
2. Più di una volta nella sua predicazione, Gesù, rivolgendosi a uomini, donne, sani e malati, afferma; “I peccati ti sono perdonati”. Nella religione ebraica, solo Dio può perdonare i peccati, e questo venne tempestivamente fatto notare a Gesù dai suoi ascoltatori.
3. I riferimenti di Gesù alla Sua persona come Via, Verità e Vita. Sono questi i riferimenti che un grande e ‘semplice’ profeta, un rabbino darebbe di se stesso?
4. Gesù si esprimeva al modo di uno che ha autorità, di uno che impartisce un proprio insegnamento (“In verità in verità vi dico”). Al riguardo, è opportuno ricordare che fu Gesù stesso ad introdurre il secondo più importante comandamento, quello della carità.
5. L'appellativo con cui Gesù si rivolge a Dio: Abbà, cioè, papà, paparino. Per la sensibilità ebraica, si tratta di un modo semplicemente inconcepibile di relazionarsi al Padre eterno. Quale profeta avrebbe potuto spingersi a tanto?

Lo ripetiamo: attenendoci alle considerazioni di Yehoshua, Gesù sarebbe uscito fuori di senno. Alla domanda, “che bisogno aveva il Nazareno di autoproclamarsi Messia?”, dovrebbe conseguire un’altra domanda: perché lo scrittore ebreo, e con lui i suoi correligionari, escludono, alla maniera dei razionalisti atei di oggi, l’unica ipotesi sensata sull’identità di Gesù, e cioè che Lui fosse veramente Dio fatto uomo? Non converrebbe prendere in considerazione questa possibilità solo per amor di ragionamento? al solo fine di rendere comprensibili le parole del Nazareno? Alla mancanza di fede nella divinità di Gesù, così come alla conseguente incapacità di mettere in discussione la propria identità religiosa (e professionale), si può sempre pensare in un secondo momento, mi pare!

Yehoshua conclude l’articolo spiegando perché gli ebrei decisero la morte di Gesù. Per renderlo innocuo, non sarebbe stato sufficiente dichiararlo fuori di testa. C’era un problema serio e nasceva dal fatto che Gesù aveva un forte séguito nella folla, fra i poveri, i semplici e i malati. La festosa accoglienza che gli venne tributata al suo ingresso in Gerusalemme, in occasione della festività della Pasqua ebraica, dimostrava che quell’uomo era molto pericoloso. La sua buona Novella, infatti, metteva in pericolo il potere delle autorità religiose di fronte al popolo. Yehoshua scrive: “Non solo le istituzioni ma anche circoli più ampi del mondo ebraico temettero che la sua comparsa (come Messia, NdR) non preannunciasse unicamente un cambiamento ma una potenziale rivoluzione”. Poi, la conclusione: “ [...] poiché gli ebrei non potevano sventare da soli la minaccia rappresentata da Gesù, si rivolsero alle autorità romane [...], perché li aiutassero a proteggere se stessi dal loro «Messia». Ed è questa l’ironia della sorte: Gesù, ebreo che cercava di evitare la sciagurata rivolta dei suoi connazionali contro il potere di Roma, fu consegnato a quel potere dai «futuri rivoltosi» e crocefisso come un sovversivo, un ribelle contro l’impero”. In altre parole, Gesù, in base alla spiegazione di Yehoshua, appare come un poveraccio, come la vittima di un paradosso storico e politico, come un ingenuo stritolato da un ingranaggio di cui ignorava i meccanismi. Poco scaltro, questo Gesù: grande conoscitore delle cose di Dio, ma molto lontano dalle cose di questo mondo, sembra suggerire lo scrittore.

Sono consapevole di aver buttato giù queste riflessioni in modo sbrigativo. La questione è molto più complessa dei termini in cui l’ha affrontata Yehoshua e del modo in cui io stesso l’ho commentata.
In chiusura, spero che nessun eventuale lettore di questo post, ebreo o meno, prenda i miei commenti come offensivi. Siamo abituati a sentire accuse di razzismo ogniqualvolta si rivolge la ben che minima osservazione critica verso gli ebrei. A scanso di equivoci, ribadisco ciò che ho scritto in altre parti, e cioè che considero gli ebrei come dei fratelli. Fatto questo però, chiarisco che farei spallucce se mi si tacciasse di antisemitismo. E questo sia perché non sono antisemita, sia perché ne ho le scatole piene della politically correctness, di questa gabbia che vuol imprigionare e uniformare i pensieri di tutti. Preferisco pormi e porre domande, lasciando che siano il confronto, la riflessione e la preghiera ad aiutarmi a trovare qualche risposta.

Thursday, July 19, 2007

Preti pedofili, un affare d’oro per avvocati e assicurazioni

La transazione per l’astronomica cifra di 660 milioni di dollari che ha chiuso una serie di cause civili contro l’Arcidiocesi di Los Angeles per casi di veri o presunti abusi sessuali compiuti da sacerdoti contro minorenni merita qualche commento che parta da una conoscenza realistica del sistema legale americano. È anzitutto ipocrita parlare di 660 milioni versati «alle vittime».
Una parte cospicua della somma è destinata a coprire le spese legali. Inoltre, la maggioranza delle persone che ha agito contro l’Arcidiocesi ha sottoscritto con i propri studi legali - di solito sempre gli stessi, ormai specializzati in questo tipo di cause - patti di quota lite (contingency), cioè accordi in virtù dei quali gli avvocati non si fanno pagare per rappresentare i clienti, ma intascano poi in caso di transazione o di successo una percentuale importante (spesso il 50 per cento) di quanto al cliente spetta a titolo di risarcimento. I patti di quota lite - che il decreto Bersani ha introdotto anche in Italia, e contro i quali hanno a lungo protestato gli Ordini degli avvocati - sono per definizione segreti e si prestano a evidenti abusi. Ma è pressoché certo che almeno la metà, e forse ben di più, dei famosi 660 milioni sono finiti non alle vittime ma nelle casse di un piccolo numero di voraci avvocati.
È anche vero che le decisioni sulle transazioni in casi di richieste di risarcimento per abusi sessuali sono ormai prese non dalle istituzioni religiose attaccate ma dalle compagnie di assicurazione. Queste ultime assicurano le istituzioni religiose contro il rischio di pagare danni per casi di abuso sessuale anche verificatisi molti anni prima della stipula della polizza. Le assicurazioni pagano una parte consistente di questi risarcimenti, ma gestiscono le transazioni e qualche volta preferiscono pagare senza discutere per poi alzare i premi, già tutt’altro che modesti, che ormai tutte le organizzazioni religiose, scolastiche e sportive degli Stati Uniti pagano per assicurarsi contro il rischio di catastrofi economiche che seguono accuse di abusi sessuali.
Lo schema - illustrato in una serie di studi del sociologo Philip Jenkins - vede dunque in campo due attori principali che restano poco noti al pubblico: le società di assicurazione, che pagano una buona parte dei risarcimenti (e si rifanno alzando i premi) e gli studi legali specializzati, che incassano il grosso delle somme. Né le une né gli altri sono particolarmente interessati all’accertamento della verità. Per questo, le somme astronomiche di cui si parla - e si parlerà ancora, perché il caso di Boston su cui si sta ancora trattando non è molto più piccolo di quello di Los Angeles - in realtà ci dicono poco sulla questione dei preti pedofili, anche se sono utili a chi vuole attaccare la Chiesa con titoli sensazionali. La realtà rimane quella descritta dal rapporto del John Jay College del 2004, il più autorevole studio sul tema. In cinquantadue anni i preti americani accusati di pedofilia sono stati 958, quelli che hanno subito una condanna penale 53. Troppi: anche un solo prete pedofilo è uno di troppo, e basta a giustificare la linea di tolleranza zero di Papa Benedetto XVI sul punto e le scuse del cardinale Mahony. Ma i dati veri sono questi.

(di Massimo Introvigne, il Giornale, 19 luglio 2007)

Tuesday, July 17, 2007

Fumare

Perché si fa tanta fatica a smettere di fumare? È solo perché l’assunzione di nicotina crea dipendenza, alla maniera di tutte le droghe? No, non solo. A ben guardare, c’è un altro motivo: fumare è un piacere, e ai piaceri è dura dire di no. Qualche giorno fa, su il Giornale, Filippo Facci evidenziava questa semplice verità con riferimento alle sostanze stupefacenti; da parte mia, la sottolineo anche per quanto riguarda le sigarette. La questione, al fondo, sta tutta qui: la nicotina dà certamente dipendenza, ma senza il piacere derivante dall’inalazione del fumo e dalla gestualità collegata alla sigaretta, ci si libererebbe dal vizio con molto meno sforzo.
Bene, da questa premessa, si sarà capito che fumare non è cosa estranea a chi scrive. E proprio perché non lo è, ho messo mano a questo post con una punta di fierezza, di autocompiacimento. Infatti, fra pochi giorni saranno 7 mesi che non tocco una sigaretta. “Ma senti senti che notizia!”, potrebbe dire qualcuno, “C’è quasi da commuoversi!”. Lo capisco, è faccenda privata, ma per uno che ha iniziato a fumare a 14 anni, che ha continuato per i successivi 25, raggiungendo negli ultimi tempi la rispettabile quota di un pacchetto e mezzo di Camel al giorno, si tratta di un risultato notevole.
Sono fiero di non essere ricorso ad alcun farmaco di sostegno. Non che ci sia nulla di criticabile nel far uso di cerotti, spray, pillole o altre diavolerie per aiutarsi a perdere il vizio, ci mancherebbe! Cionondimeno, smettere in modo, diciamo così, ‘nudo e crudo’ ha dato un sapore tutto particolare a quella che è stata un’autentica impresa.
Non sono e non mi reputo definitivamente libero dal tabagismo. Anzi. Nelle mie fantasie mi vedo mentre accendo e fumo 3 sigarette nello stesso momento. La battaglia è appena iniziata. Un amico mi ha detto che ancora lo assale il desiderio di fare qualche tirata. E sono vent’anni che ha smesso!
Le esperienze e i fallimenti di tanti ex fumatori insegnano che, quando si volta pagina, non bisogna mai abbassare la guardia: fuma anche una sola sigaretta e, zac, ricominci come e più di prima. Il rischio sempre incombente di ricadere nel vizio, vanificando tempo e sacrifici per un momento di debolezza, mi fa spesso maledire il giorno in cui accesi la mia prima sigaretta.
Si dice che il dolore rende saggi e unisce gli uomini. Fatte le dovute proporzioni, comprendo sempre più la tragedia di quei poveracci che finiscono nel tunnel della droga: se io ho incontrato tante difficoltà solo per smettere di fumare sigarette, che cosa mai deve essere liberarsi dalla tossicodipendenza vera e propria? Fumare (o drogarsi) sarà pure un piacere, ma, sia che ci si abbandoni al vizio sia che si cerchi di uscirne, che prezzo si paga!
In conclusione, non mi resta che da vedere come va a finire questa storia! Nel frattempo, mi do coraggio pensando che se sono stato capace di arrivare sin qui dopo 25 anni di onorata vita da fumatore, posso anche mettere ordine in altre faccenducole che mi trascino da tempo. E Dio sa se ci sono cose da fare!

Monday, July 16, 2007

La Chiesa di Gesù sussiste nel cattolicesimo

Una scelta lineare nella tradizione del Magistero
Vittorio Messori
Corriere della Sera, 11 luglio 2007

Anche se qualche giornalista va sfruculiando esponenti di comunità non cattoliche eccitandoli alla polemica, è difficile trovare elementi di novità o addirittura di scandalo nelle quindici paginette. Sono quelle del documento della Congregazione per la fede intitolato “Risposte ai quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”.
Già sette anni fa, in un altro documento ben altrimenti corposo, la Dominus Jesus, le stesse cose erano state ribadite. Ribadite, dico, in quanto neppure allora si trattava di novità, bensì di insegnamenti costanti del Magistero, riuniti un solo testo all’insegna del repetita juvant.
Nel documento attuale si punta la lente, ingrandendola, su un’espressione usata dal Vaticano II e sulla quale si sono versati fiumi di inchiostro. Nella Costituzione conciliare Lumen Gentium, cioè, si afferma che la vera Chiesa che Cristo ha fondato «subsistit in Catholica Ecclesia». I Padri del Vaticano II, dunque, non hanno usato il verbo est, è, ma hanno preferito quel “sussiste” che molti teologi hanno letto come una attenuazione delle pretese romane, quasi che la vera Chiesa voluta da Gesù “sussistesse” anche in altre comunità. E’ una interpretazione che è stata più volte respinta dal Magistero e che ora viene riaffrontata con ampiezza. Quel verbo, si dice, è stato scelto non per diminuire l’unicità della Catholica ma per ribadire che elementi di verità possono sopravvivere altrove, restando però chiaro che la pienezza della verità e dell’efficacia del Cristo vivono nella gerarchia che ha il Romano Pontefice al vertice. Una spiegazione classica ma che meritava di essere ribadita, visto che qualche teologo su quel subsistit aveva costruito castelli “ecumenici” che ora vengono dichiarati di carta. Un déja vu anche nella distinzione tra le antiche comunità orientali che hanno diritto, pur se separate da Roma, ad essere dette “chiese”, perché hanno conservato la successione apostolica (e, dunque, il sacerdozio, l’eucaristia e gli altri sacramenti) e i gruppi non solo scismatici ma eretici nati dalla Riforma protestante, che possono essere indicate solo come “comunità cristiane”.
Un documento, insomma, che è solo un altro tassello della strategia ratzingeriana di sempre: ammonire che il Vaticano II non è stato una rottura con la tradizione ma uno sviluppo e un approfondimento di una fede che è rimasta la stessa, una fede che non conosce distinzioni tra“pre” e “post-conciliare”.

Friday, July 13, 2007

Eucaristia

In genere non riporto articoli che trattano di questioni di fede cattolica. Mi rifaccio all’insegnamento di Gesù di “non dare le perle ai porci”. Questa volta faccio un’eccezione, in ragione dell’importanza dell’argomento, nonché del modo in cui l’autore l’ha trattato.

Un giovane sacerdote della Congregazione dei Legionari di Cristo mi ha chiesto, con buona dose di incoscienza, di tenere una meditazione sulla SS. Eucaristia durante un'ora di adorazione. Con incoscienza pari alla sua, ho accettato di balbettare qualcosa davanti al SS Sacramento esposto, offrendo qualche pensiero su un Mistero che trascende le nostre povere capacità di raziocinio.
Mi sono preparato andando a spulciare testi sicuri da cui trarre le cose che avrei dovuto dire. La scelta è caduta sul Catechismo di san Pio X (nessun equivoco: va benissimo anche il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, ma io ho studiato su quello di Papa Sarto e mi è venuto spontaneo utilizzarlo) e su un classico, Teologia della perfezione cristiana, del Royo Marin.
Più di una volta, non mi vergogno di dirlo, leggendo cosa vi era scritto m'è sembrato di provare qualcosa di simile a vertigini. Troppo grandi, belle e profonde le verità della fede cattolica. Ad un'anima poco o niente allenata alle vette della mistica, come, purtroppo, è quella del sottoscritto, il loro effetto può paragonarsi a quello di una bevanda inebriante, l'anima non potendo assaporarle senza rimanerne in qualche modo come stordita.
Esagero? Giudicate voi. Ma leggete senza fretta e concentratevi sul significato delle parole.
Primo pensiero, tratto dal Catechismo di san Pio X: "Nell'Eucaristia c'è lo stesso Gesù Cristo che è in cielo, e che nacque in terra da Maria Vergine». Fermatevi un momento a pensare. C'è scritto: «... lo stesso Gesù Cristo che...». Capito? Lo stesso Figlio di Dio che hanno visto gli Apostoli, che ha fatto i miracoli, che è morto e risorto, che ora è in Cielo ma duemila anni fa camminava in Palestina. Lo stesso! E mentre io parlavo, Lui era lì, a un paio di metri da me! Come stava accanto a Pietro, Giacomo, Giovanni e agli altri. Mistero grande, impenetrabile, ma vero!
Secondo pensiero, tratto dal Royo Marin: «La comunione mette a nostra disposizione tutti i tesori di santità, di sapienza e di scienza racchiusi in Gesù Cristo. L'anima riceve nella comunione un tesoro rigorosamente infinito che le viene dato in proprietà». Anche qui, una pausa. Da sottolineare quel che è scritto: «tutta la santità, tutta la sapienza e tutta la scienza di Dio» ci viene data in proprietà quando riceviamo degnamente la Particola consacrata. Ce ne rendiamo conto? La sapienza di Dio diventa «mia», la scienza di Dio è «mia», e così la sua santità. Certo, ho spiegato agli amici costretti dal Legionario ad ascoltarmi che non realizziamo i frutti di questo dono perché la nostra anima, schiacciata dal peso del peccato, della miseria e della viltà è troppo piccola per contenere tutta - dico: tutta! - la scienza, la sapienza e la santità di Dio, ma resta il fatto - stupefacente - che Gesù Cristo le mette a nostra disposizione. Tutte!
Un ultimo pensiero, sempre dal Royo Marin. L'Eucaristia è «alimento della nostra anima». Ma, attenti bene: a differenza dell'alimento materiale, che una volta ingerito noi assimiliamo, con l'Eucaristia accade il contrario: noi «ci nutriamo» di Cristo, è vero, ma è Lui che «ci assimila» a Se stesso, divinizzandoci e trasformandoci in Lui. Cioè, a poco a poco (perché d'un botto non ne siamo capaci) ci rende simili - simili! - a Lui!
Non ce n'è abbastanza da sbalordire? Chi altri, se non Dio stesso, poteva pensare simili altezze dottrinali e rivelarcele?
I santi avevano compreso queste verità meglio di noi e le vivevano. Avete presente quella celeberrima foto che ritrae il volto di Padre Pio da Pietrelcina mentre il frate tiene tra le mani la SS Eucaristia? Fate attenzione al suo sguardo. Guardate quegli occhi. Non sono "normali", non sono come i nostri quando partecipiamo alla Messa, ma rivelano che il fraticello stigmatizzato aveva capito Chi teneva tra le mani. Ecco, per l'estate nella quale leggerete questo editoriale, il mio augurio, che si fa preghiera, è che io e tutti voi, cari amici del Timone, possiamo sempre più comprendere e vivere questa strabiliante verità della Eucaristia.

(Gianpaolo Barra, Il Timone, luglio 2007, n.65, pag. 3)

Thursday, July 12, 2007

‘The Messenger’. Gabriel Allon is back

My wife is in Rome today. This morning she was browsing in a bookshop at Termini Railway Station when she noticed it on a shelf. She gave me a call and said: “Listen, I do not remember the titles you were looking for. All the same, there is just one of them here, ‘The Messenger’. What do you want me to do?”

I got it at last! And you? Do not miss the latest novel by Daniel Silva, starring the Israeli art restorer and secret agent Gabriel Allon.

Wednesday, July 11, 2007

Giuliano Amato e la violenza maschile sulle donne

Due cosette sulle affermazioni di Giuliano Amato a proposito dei maschi che picchiano le donne.
1. Se dipendesse da me, alle femministe radicali (vedi qui), una legnata quotidiana sul groppone la darei. Una sana legnata maschilista e patriarcale. Se poi una legnata quotidiana non bastasse a schiarir le idee a quelle birbantelle, si può far loro un dono: una seconda legnata!
2. Amato sostiene: “Dobbiamo evitare di imputare a Dio, il Dio dei cristiani e dei musulmani, che in realtà è lo stesso, ciò che è da imputare invece agli uomini”. È proprio sicuro il ministro che il Dio cristiano e quello musulmano sono uguali? Ma sicuro, sicuro, sicuro? Sicuro come la legnata che merita la femminista radicale di cui sopra?

Tuesday, July 10, 2007

La mia morte guardando fuori dal finestrino

Stamattina, guardavo dal finestrino del treno che mi portava al lavoro. Le immagini scorrevano veloci e, per chissà quale bizzarra associazione di idee, il pensiero è andato a quello che direbbero di me, se morissi oggi, coloro che mi hanno voluto bene.
Suggerimento che ho letto da qualche parte: “Decidi cosa vuoi che si scriva sulla tua tomba e spendi la vita a realizzarlo”.

Friday, July 06, 2007

La fede spiegata a un figlio

Ci fu un tempo in cui il cristianesimo fu come l’Islam, che non a caso ha settecento anni in meno. Un tempo, cioè , in cui la fede era un bene, alla pari di quelli mobili ed immobili, da trasmettere come per testamento. Si “credeva“, senza problemi, come avevano fatto genitori, nonni, bisnonni. Da tempo non è più così; ed è, probabilmente, un bene. La fede, in effetti, prima che una dottrina, un modo di vivere, un complesso di riti, è un incontro con Gesù stesso, è una “scommessa“ sul mistero di quell’Uomo, è una decisione di viverne l’amicizia. Cose, tutte, che esigono una dimensione personale e un clima libero. Dunque, ogni generazione che si affaccia alla vita deve ricominciare da capo, convincersi che anche per essa c’è qualcosa di importante (e di ragionevole) in quei quattro libricini chiamati “buona notizia“, vangelo.
Da qui, compiti e ruoli difficili per i genitori cattolici ai quali, un tempo, non occorrevano complesse spiegazioni, bastava dare ai figli il buon esempio concreto. L’adeguamento cioè – nella vita quotidiana – ai precetti evangelici così come erano proposti dalla Chiesa. Ma questa pure suscita nelle nuove generazioni una folla di domande perplesse se non diffidenti, alla pari del Fondatore cui dice di ispirarsi. C’è bisogno, anche qui, di una convinzione personale, peraltro sempre più difficile, essendo diventati i cristiani una minoranza, almeno culturale, e battendo il mondo vie ben diverse, che sembrano più credibili e affascinanti. Le attuali liste di best seller editoriali impressionano, per i primi posti occupati da libri che attaccano frontalmente la fede, almeno così com’è proposta dalla Chiesa.
Ma non per questo il cattolico superstite si arrende: ciò che conforta chi conosca la storia della Chiesa, è la capacità di reazione dei suoi figli, quando sia necessario un colpo di reni. Se preti, frati, suore, consacrati in genere, latitano o sono inadeguati, ecco farsi sotto i laici. In questo caso, i genitori credenti che si ingegnano a trovare risposte convincenti per i loro figli e a far parte ad altre famiglie della loro esperienza. Sono spesso giornalisti, dunque specialisti nel cercare di capire e di divulgare. Così, tempo fa, Michele Brambilla, ora vicedirettore de il Giornale, ha pubblicato per la Piemme – con un successo significativo – un Gesù spiegato a mio figlio. Ecco ora, presso la stessa editrice, La fede spiegata a mio figlio di Davide Perillo (pp. 173, € 11,50), firma nota ai lettori del Corriere della Sera, che amplia il campo arato da Brambilla: dal Cristo a tutta la dimensione di fede. Sono cinquanta domande che non si sottraggono ad alcun problema (dalla Madonna all’inferno, dalla Trinità al papa, dall’Islam ai miracoli), dando risposte oneste e non divaganti agli interrogativi radicali di bambini ed adolescenti. Un “catechismo familiare“, insomma, dichiaratamente senza pretese ma, in realtà, sorprendente per la conoscenza dei temi e per la capacità di presentarli in modo semplice e ragionevole. L’esortazione di papa Ratzinger a unire fede e ragione è presa sul serio in queste pagine, dove il Credo è proposto in modi affettuosi e sorridenti, ma al contempo fondati e convincenti. Stretto e continuo, poi, il collegamento non solo con la Tradizione ma anche con la Scrittura, ampiamente citata in appositi inserti.
É uno strumento, questo che, prima che ai figli, farà un gran bene ai genitori che se ne serviranno come traccia. Dubitiamo, infatti, che il “praticante medio“ abbia sulla fede della sua Chiesa l’informazione chiara, precisa, concreta di questo “papà Davide” che non parla per sentito dire ma, pur ancor giovane, sperimenta già su tre figli queste sue ragioni per prendere sul serio il Nazareno.

di Vittorio Messori
Corriere della Sera Magazine, 7 giugno 2007

Thursday, July 05, 2007

Normalità e anticonformismo

È amarissima la constatazione di Michele Brambilla in ‘Fiorani ha ragione, i cafoni siamo noi’ su il Giornale di oggi. Pensando ai giovani, vere vittime di tanta confusione, mi sono ricordato il consiglio del filosofo cattolico Jean Guitton: “Se, davanti a una cattiva azione, senti dire: «Tanto lo fanno tutti», rispondi: «Io non lo faccio». Perché, non dimenticarlo, il coraggio di uno solo basta per molti”. Questo sì che è vero anticonformismo!

Wednesday, July 04, 2007

Femminismo, Islam ... e lobby gay

Su segnalazione di Passaggioalbosco e di Filo a piombo, metto anch’io in evidenza lo stupendo articolo di Guglielmo Piombini [Enclave. Rivista libertaria, n. 36, giugno 2007]. La crisi del maschile, la femminilizzazione della società occidentale e la forza dell'Islam non sono argomenti nuovi in questo blog, dove si sono tratte conclusioni similari.
Dato che l’articolo di cui si tratta è lungo - ma si legge con facilità -, mi limito a due brevissime osservazioni.
La prima, molto banale, riguarda un dubbio che mi porto ormai da tempo: siamo proprio sicuri che i poveri, gli sventurati dell’umanità si trovino solo nei paesi del Terzo Mondo? A me sembra che, fatte le opportune distinzioni, aver perso l’identità individuale e collettiva non sia meno grave che vivere sotto regimi dittatoriali e morire di inedia e malattie.
La seconda è una digressione sul tema sviluppato da Piombini. Aggiungerei infatti alla sua analisi sulle responsabilità del femminismo radicale una rapida occhiata ad un altro fenomeno, quello delle rivendicazioni omosessuali. Ricordo di aver letto da qualche parte che le rivendicazioni sociali più pressanti della lobby gay sono portate avanti non da uomini, come generalmente si pensa, ma da donne. Quell’informazione, forse, trova conferma e fondamento nello scenario delineato da Piombini: non sorprende così che siano le lesbiche a premere per la legalizzazione dei matrimoni omo, per l’adozione dei figli e per la fecondazione assistita. Paradossale è poi che gli omosessuali maschi si espongano pubblicamente, credendo di avanzare propri bisogni. Poveracci, ingannati da tutte le parti!

Tuesday, July 03, 2007

Sergio Romano su Israele, passando per (Messori e) Cammilleri

Ho sempre guardato con grande simpatia e ammirazione il popolo ebraico e ho sempre considerato con grande diffidenza le critiche rivolte a Israele, da qualunque parte venissero. Da un po’, leggendo autori come Vittorio Messori e Rino Cammilleri, guardo le questioni riguardanti i nostri fratelli ebrei (e non solo queste) in modo meno fazioso. Preciso che non c’è alcuna ostilità verso gli ebrei da parte dei due scrittori cattolici, anzi. Si tratta semplicemente di dare a ciascuno il suo. Non si fa mai un buon servizio a qualunque causa se si esita a riconoscere anche ciò che non piace. Qualche giorno fa, il Giornale ha riportato degli estratti di un articolo su Israele scritto da Sergio Romano per la rivista Aspenia. A sua volta, Rino Cammilleri ha ripreso nel suo sito i passaggi salienti di quell’articolo. In altri tempi, da perfetto ignorante, avrei semplicemente storto il naso, bofonchiato qualcosa e tirato diritto di fronte alle opinioni di Romano e Cammilleri. Oggi, non più.
Sul numero del luglio 2007 della rivista «Aspenia», dedicato alla situazione di Israele, l’ex ambasciatore Sergio Romano riserva, nel suo articolo, alcuni passaggi alla diaspora, cioè agli ebrei residenti fuori da Israele.

Nota Romano che essa, di fronte agli attuali problemi di Israele, ha adottato un singolare atteggiamento: «Ha delegato la propria rappresentanza a una nomenklatura che considera antisemita ogni critica indirizzata alla politica israeliana e pretende la redazione di una nuova storia europea del Novecento, scritta alla luce di un solo criterio: l’atteggiamento verso gli ebrei dei governi, degli uomini politici, degli intellettuali. Soggetti a queste pressioni, i governi europei hanno proclamato “giorni della memoria” dedicati alla commemorazione del genocidio ebraico, hanno costruito memoriali, hanno aperto musei della Shoah e hanno approvato leggi che puniscono con il carcere il diniego del genocidio».

Ancora: «Il maggior bersaglio di questa nomenklatura, da qualche anno, è la Chiesa di Pio XII».
Non che non ce ne fossimo accorti, certo. Ma ci rende pensosi l’indubbia efficacia di «queste pressioni». E ci chiediamo perché ce l’abbiano tanto con Pio XII.

Di più non diciamo, perché ha ragione Romano: «Chi ha sollevato il problema dell’influenza esercitata da questa nomenklatura è stato spesso bersaglio di critiche acrimoniose».
Nella migliore delle ipotesi.